La crisi della medicina generale italiana trova nel caso di Giorgio Diakantonis, medico di famiglia trentasettenne di Imola, una rappresentazione emblematica di un sistema sanitario territoriale sempre più in difficoltà. Il professionista, che fino al 2024 seguiva settecento pazienti nella cittadina emiliana, ha preso la drastica decisione di abbandonare il proprio incarico per tornare sui banchi universitari e specializzarsi in medicina del lavoro, lasciando dietro di sé un vuoto assistenziale e una testimonianza inquietante sullo stato della professione medica nel nostro Paese.
Il medico romagnolo, che si definisce “figlio d’arte” avendo ereditato la passione per la medicina di famiglia dalla madre, ha spiegato le ragioni della sua scelta in termini chiari e diretti: “La decisione di lasciare l’ho maturata quando è stato pubblicato, nel 2024, il nuovo contratto nazionale. Quel contratto è stata una granata sparata sulla professione, appena l’ho letto mi sono sentito tremare la terra sotto i piedi”. La sua testimonianza rappresenta un caso paradigmatico di una tendenza sempre più diffusa tra i giovani medici italiani, che vedono nella medicina generale una professione sempre meno attrattiva e sostenibile dal punto di vista lavorativo e personale.
Il nuovo accordo collettivo nazionale che ha introdotto il cosiddetto “ruolo unico” per i medici di medicina generale rappresenta secondo Diakantonis “l’ultima stangata sulla professione”. Questa riforma, entrata in vigore nel 2024, obbliga i nuovi medici di famiglia a svolgere contemporaneamente attività ambulatoriale con i propri pazienti e servizi di continuità assistenziale, come la guardia medica, per un totale di trentotto ore settimanali che possono essere gestite dalle aziende sanitarie locali. Il sistema, concepito per rispondere alle esigenze del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e alla creazione delle Case di Comunità, ha di fatto stravolto l’organizzazione tradizionale della medicina territoriale, creando incertezze e resistenze tra i professionisti.
La situazione diventa ancora più complessa se si considera che la popolazione assistita è sempre più anziana e complessa dal punto di vista sanitario. Come evidenzia Diakantonis, “la popolazione è sempre più anziana, complessa, dispersa su un territorio molto vasto. E ci sono sempre meno persone che possono accudirli questi anziani. Dopo il Covid, poi, il sottile equilibrio che reggeva ancora la medicina di base si è spezzato, nella popolazione si è diffusa un’angoscia totalizzante e le richieste di prestazioni sono aumentate tantissimo”. Questa trasformazione demografica e sociale ha moltiplicato il carico di lavoro dei medici di famiglia, che si trovano a gestire situazioni cliniche sempre più complesse con risorse umane e temporali inadeguate.
Un aspetto particolarmente significativo della testimonianza del medico imolese riguarda il fenomeno del “Dottor Google”, ovvero la tendenza sempre più diffusa dei pazienti a cercare informazioni mediche online prima di rivolgersi al proprio medico di fiducia. “I pazienti arrivano da te dopo esser stati bombardati di informazioni, le vanno a cercare su Google, ma poi le informazioni da sole non bastano, bisogna saperle processare”, spiega Diakantonis, evidenziando come questa pratica, pur non rappresentando il motivo principale della sua decisione, contribuisca a complicare il rapporto medico-paziente e a ridurre l’autorevolezza professionale, soprattutto per i medici più giovani.
La ricerca online di informazioni sanitarie è diventata un fenomeno di massa che coinvolge l’ottantotto per cento degli italiani, i quali quando non stanno bene si autodiagnosticano cercando su internet quali malattie sono associate ai propri sintomi. Questo comportamento, definito “cybercondria” dagli esperti, rappresenta la versione tecnologica dell’ipocondria e può portare a conseguenze pericolose quando i pazienti si imbattono in informazioni non verificate o interpretano erroneamente i dati sanitari disponibili online. Il fenomeno è particolarmente pronunciato tra le generazioni più giovani: il cinquantasei virgola sette per cento dei giovani tra i diciotto e i ventiquattro anni utilizza Google prima di contattare il proprio medico di base, mentre questa percentuale scende al diciannove virgola due per cento tra gli over sessantacinque.
Il caso di Diakantonis non rappresenta un episodio isolato ma si inserisce in un quadro più ampio di crisi strutturale della medicina generale italiana. Secondo i dati della Fondazione Gimbe, attualmente mancano all’appello oltre cinquemilacinquecento medici di famiglia rispetto al fabbisogno standard, e oltre la metà di quelli in attività assiste più di millecinquecento pazienti, una soglia considerata limite per garantire l’efficacia della presa in carico. La situazione è destinata a peggiorare ulteriormente: entro il 2027 andranno in pensione circa settemilatrecento medici di famiglia, mentre i nuovi ingressi non riusciranno a colmare il vuoto lasciato dai pensionamenti.
La provincia di Bologna, dove operava Diakantonis, rappresenta un esempio significativo di questa crisi. Come testimonia il caso di Andrea Mengoli, primo medico della provincia ad aver firmato il ruolo unico, le nuove disposizioni contrattuali stanno creando situazioni paradossali che penalizzano l’assistenza ai pazienti più fragili. Mengoli, che dal 2021 prestava servizio presso Casa Tozzoli a Imola, una struttura residenziale per quarantaquattro anziani non autosufficienti, è stato costretto a rinunciare a questo incarico specializzato per rispettare gli obblighi del ruolo unico, che non contempla la possibilità di conteggiare le ore nelle case di cura come ore di continuità assistenziale.
La decisione di Diakantonis di intraprendere una specializzazione in medicina del lavoro riflette una strategia di riconversione professionale sempre più comune tra i medici che abbandonano la medicina generale. La medicina del lavoro, disciplina che si occupa della prevenzione, diagnosi e cura delle malattie professionali e dell’idoneità lavorativa, offre percorsi di carriera più strutturati e condizioni lavorative spesso più favorevoli rispetto alla medicina territoriale. La specializzazione ha una durata di quattro anni e prevede l’acquisizione di duecentoquaranta crediti formativi universitari, con un percorso che include attività clinico-diagnostiche, sorveglianza sanitaria e formazione in ambito igienistico-industriale.
La fuga di Diakantonis dalla medicina di famiglia evidenzia come il patto generazionale tra professionisti senior e giovani medici si sia definitivamente incrinato. “Il problema è che ha deciso del nostro futuro chi ha ormai un piede fuori dalla porta. Noi giovani abbiamo provato a dire la nostra, ma siamo stati liquidati come la generazione che non ha voglia di lavorare”, denuncia il medico romagnolo, sottolineando come le decisioni sul ruolo unico siano state prese senza un adeguato coinvolgimento delle nuove generazioni di professionisti che dovranno applicare concretamente le nuove disposizioni contrattuali.
La crisi della medicina generale si riflette inevitabilmente sulla qualità dell’assistenza sanitaria territoriale, con conseguenze particolarmente gravi per le fasce più vulnerabili della popolazione. In province come Bergamo, già duramente colpite dalla pandemia, si contano trentamila pazienti senza medico di famiglia, costretti a rivolgersi impropriamente ai servizi di emergenza per ricevere cure di base. Questa situazione crea un circolo vizioso che aggrava ulteriormente la pressione sui pronto soccorso e compromette la sostenibilità complessiva del sistema sanitario nazionale, mettendo a rischio quel diritto costituzionale alla salute che rappresenta uno dei pilastri fondamentali della nostra democrazia.