La sonora bocciatura dei referendum dell’8 e 9 giugno, con un’affluenza ferma al 30 per cento e il quorum del 50 per cento più uno mancato per ben venti punti percentuali, ha scatenato l’ennesima crociata della sinistra contro uno dei pilastri fondamentali della nostra democrazia costituzionale. Il comitato “Basta quorum!” con primo firmatario Mario Staderini ha presentato già il 5 giugno alla Corte di Cassazione una proposta di legge costituzionale per abolire il quorum dai referendum abrogativi, definendolo “uno strumento dannoso per la democrazia”. Una reazione scomposta e ideologica che tradisce la vera natura di questa operazione: non una riforma democratica, ma un tentativo di sovvertire le regole del gioco quando non si riesce a vincere rispettandole.
Il quorum per i referendum abrogativi non è un capriccio legislativo o un ostacolo burocratico, ma una garanzia fondamentale pensata dai padri costituenti per evitare che minoranze organizzate possano imporre la propria volontà all’intera collettività nazionale. L’articolo 75 della Costituzione stabilisce chiaramente che “la proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi“. Questa formulazione, elaborata con estrema precisione dall’Assemblea costituente, risponde a una logica democratica ineccepibile: per abrogare una legge approvata dal Parlamento, espressione della sovranità popolare attraverso i suoi rappresentanti eletti, è necessario che si mobiliti almeno la metà del corpo elettorale. Durante i lavori costituenti, come ricorda la documentazione storica disponibile, un deputato sentenziò con linguaggio molto esplicito: “Sarebbe, a mio avviso, veramente deplorevole l’abrogazione di una legge con il 17, 18, 20 per cento di voti rispetto agli elettori iscritti“.
La questione del quorum venne affrontata nella discussione della proposta di articolo 73 che inizialmente prevedeva “i due quinti degli aventi diritto”, ma dopo un dibattito approfondito si giunse alla formulazione attuale della maggioranza degli aventi diritto. Questa scelta non fu casuale ma frutto di una riflessione ponderata sui rischi di un sistema referendario senza adeguate garanzie. Il quorum costituisce quindi un filtro qualitativo che impedisce a campagne referendarie di nicchia, sostenute da gruppi di pressione particolarmente attivi ma minoritari nel paese, di stravolgere l’ordinamento giuridico nazionale con il consenso di una frazione esigua della popolazione. Non è un caso che nei paesi con democrazie consolidate esistano sempre meccanismi di questo tipo per bilanciare democrazia diretta e democrazia rappresentativa.
L’introduzione della raccolta firme digitale attraverso SPID, carta d’identità elettronica e altri strumenti di autenticazione telematica, rappresenta indubbiamente un’innovazione significativa nel panorama della partecipazione democratica italiana. Il decreto Semplificazioni del luglio 2021 ha reso possibile per la prima volta nella storia repubblicana la sottoscrizione online di referendum e proposte di legge di iniziativa popolare, eliminando la necessità di recarsi fisicamente ai tradizionali banchetti di raccolta firme. Questa digitalizzazione, però, mentre da un lato facilita l’esercizio dei diritti politici dei cittadini, dall’altro crea nuovi rischi per l’equilibrio del sistema democratico che i sostenitori dell’abolizione del quorum fingono di non vedere. La facilità con cui è oggi possibile raccogliere centinaia di migliaia di firme in tempi rapidissimi attraverso campagne social mirate e coordinate rischia di trasformare lo strumento referendario in un’arma di distrazione di massa nelle mani di lobby, movimenti populisti e gruppi di interesse economico o ideologico.
L’esperienza del referendum sulla cannabis, che nel 2021 riuscì a raccogliere in pochi giorni oltre 500mila firme digitali, ha dimostrato concretamente quanto sia diventato semplice superare la soglia costituzionale delle firme necessarie. Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale, aveva già allora avvertito che “probabilmente sarebbe giusto alzare la soglia delle firme perché è stata fissata nel 1947 quando la popolazione italiana era largamente inferiore a quella attuale“. Nel 1948, quando entrò in vigore la Costituzione, gli elettori erano circa 29 milioni mentre oggi sono oltre 50 milioni, il che significa che la soglia di 500mila firme che allora rappresentava l’1,7 per cento del corpo elettorale oggi è scesa sotto l’1 per cento. Questa erosione progressiva del peso relativo della soglia, accelerata dalla digitalizzazione, rende ancora più urgente una riflessione seria sui meccanismi di garanzia democratica.
Di fronte a questo scenario, anziché demolire le garanzie esistenti come vorrebbero i sostenitori dell’abolizione del quorum, sarebbe più opportuno e democraticamente responsabile procedere a un riequilibrio del sistema che tenga conto sia dell’evoluzione demografica che delle nuove modalità di raccolta firme. Portare la soglia minima da 500mila a un milione di firme significherebbe ristabilire sostanzialmente la proporzione originaria pensata dai costituenti, quando la popolazione elettorale era circa la metà di quella attuale. Come suggeriscono diversi costituzionalisti, “un aumento del numero di firme che ristabilisca le proporzioni del 1948 sarebbe auspicabile” e “la nuova soglia di 800mila firme potrebbe ristabilire la misura desiderata dai costituenti”, anche se sarebbe ancora più logico arrivare al milione per tenere conto dell’ulteriore crescita demografica. Una soglia più alta garantirebbe che solo le questioni che mobilitano davvero una parte significativa della società civile possano arrivare al vaglio popolare, evitando la proliferazione di referendum su temi di nicchia o mossi da interessi particolari.
Questa riforma dovrebbe essere accompagnata da un rafforzamento, non da un indebolimento, del quorum costitutivo, che rappresenta l’ultima barriera contro l’uso strumentale dello strumento referendario. L’esperienza degli ultimi decenni dimostra che quando il quorum non viene raggiunto, come accaduto nei referendum del 2005, 2009, 2016 e ora nel 2025, non si tratta di un “fallimento della democrazia” ma di un sano funzionamento dei meccanismi di garanzia costituzionale. Il corpo elettorale, con la sua astensione maggioritaria, esprime un giudizio politico chiaro: quelle questioni non meritano di essere decise attraverso l’abrogazione di leggi esistenti. Rispettare questo verdetto significa rispettare la volontà popolare, non tradirla.
Le vere ragioni dell’attacco al quorum
Bisogna essere chiari sulle vere motivazioni che spingono certi settori politici a voler demolire il sistema di garanzie referendarie: non si tratta di amore per la democrazia diretta, ma di calcolo elettorale e di ricerca di scorciatoie per aggirare il confronto parlamentare. I referendum dell’8 e 9 giugno su lavoro e cittadinanza erano stati concepiti fin dall’inizio non per abrogare specifiche norme ritenute dannose, ma come un’operazione di marketing politico contro il governo Meloni. Il segretario del Pd Francesco Boccia aveva candidamente ammesso che bastassero “12,4 milioni di voti” per mandare “l’avviso di sfratto” alla premier, in una logica che trasformava lo strumento referendario in un sondaggio di gradimento governativo. Il fallimento di questa strategia, con un’affluenza tre volte inferiore alle aspettative, ha mandato in frantumi la narrazione dell’opposizione e ora si cerca di cambiare le regole del gioco.
La reazione di Riccardo Magi di +Europa, che ha commentato l’esito affermando che “ha vinto l’astensionismo organizzato” e che “il quorum è divenuto un ostacolo alla democrazia”, rivela tutta l’ipocrisia di questa operazione. Non esiste alcun “astensionismo organizzato”: esiste semplicemente un corpo elettorale maturo che ha valutato i quesiti proposti e ha deciso, nella sua maggioranza, di non considerarli meritevoli di attenzione. Definire questa scelta democratica un “ostacolo alla democrazia” significa rovesciare completamente il significato delle parole e dei concetti. Al contrario, come ha giustamente osservato il presidente del Veneto Luca Zaia, “quello appena archiviato è stato un referendum pensato male, proposto peggio e terminato con un chiaro responso popolare: l’assenza di consenso”.
La Costituzione italiana ha retto per quasi ottant’anni proprio grazie al suo sistema di pesi e contrappesi, che impedisce tanto la tirannide della maggioranza quanto quella delle minoranze organizzate. Il quorum referendario rappresenta uno di questi contrappesi fondamentali e la sua eliminazione aprirebbe la strada a una deriva plebiscitaria che nulla ha a che vedere con la democrazia matura e responsabile. Chi oggi propone di abolirlo sta di fatto proponendo di snaturare uno degli istituti più importanti della nostra architettura costituzionale per ragioni di mera convenienza politica. Al contrario, è tempo di rafforzare le garanzie democratiche adeguando la soglia delle firme necessarie alla nuova realtà demografica e tecnologica del paese. Un milione di firme per proporre un referendum abrogativo non sarebbe un ostacolo alla democrazia, ma una sua tutela. E il mantenimento del quorum del 50 per cento più uno rappresenta l’ultima difesa contro l’uso improprio dello strumento referendario da parte di lobby e gruppi di pressione. Difendere queste regole significa difendere la democrazia dai suoi falsi amici.