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Chi vuole il nostro Oro? La verità dietro lo scontro tra Governo e BCE “sull’Oro del Polo Italiano”

L’Italia custodisce 280 miliardi in oro, un tesoro immenso che riaccende lo scontro con la BCE. Perché ribadire chi ne è il proprietario scatena tanta inquietudine a Bruxelles?

La recente bocciatura da parte della Banca Centrale Europea dell’emendamento di Fratelli d’Italia sulle riserve auree di Bankitalia ha sollevato un dibattito che merita di essere affrontato con ordine e senza slogan. L’emendamento in questione, firmato dal senatore Lucio Malan, ribadisce un principio che dovrebbe essere considerato elementare: l’oro custodito dalla Banca d’Italia appartiene allo Stato e dunque al popolo italiano. Un’affermazione che non altera la struttura dell’Eurosistema, non scardina l’indipendenza della banca centrale, non autorizza alcun governo a disporre delle riserve per fini di spesa pubblica. Eppure ha generato un allarme che rivela, più che una questione tecnica, un sensibile nervo politico.

È bene chiarire anzitutto un punto essenziale: l’ingresso dell’Italia nell’unione monetaria non ha comportato la cessione delle riserve auree nazionali alla BCE. La sovranità monetaria – intesa come gestione della politica monetaria corrente, emissione della moneta, determinazione dei tassi – è stata trasferita all’Eurosistema; la proprietà patrimoniale dell’oro, invece, è rimasta in capo agli Stati membri attraverso le rispettive banche centrali. Né i Trattati europei né lo statuto della BCE prevedono la possibilità di trasferire la titolarità delle riserve a Francoforte. La Banca d’Italia partecipa all’Eurosistema, ma resta un’istituzione italiana dotata di patrimonio proprio, che agisce secondo finalità europee ma la cui proprietà non è messa in discussione. È quindi scorretto affermare o suggerire che dichiarare la proprietà statale dell’oro equivalga a rivendicare un diritto di utilizzo politico delle riserve: la differenza tra proprietà giuridica e disponibilità operativa è netta e ben definita.

La BCE, nel suo parere, manifesta preoccupazione per il linguaggio utilizzato dall’emendamento, sostenendo che l’espressione “appartiene allo Stato” possa insinuare l’idea di una possibile ingerenza politica nella gestione delle riserve. Si tratta di un timore eccessivo, se non infondato. La normativa europea vieta severamente il finanziamento monetario dei governi e stabilisce con precisione che le riserve possono essere utilizzate solo per finalità di politica monetaria. Nessun emendamento nazionale potrebbe scalfire tali vincoli. Ribadire la proprietà pubblica dell’oro non è dunque un tentativo di “mettere le mani” sulle risorse, ma un atto di chiarezza giuridica che altrove non provoca alcuno scandalo. Il riferimento al caso francese è pertinente: il Codice monetario e finanziario francese specifica apertamente che la Banque de France detiene e gestisce l’oro in nome e per conto dello Stato. Nessuno, a Parigi, considera ciò una minaccia per i trattati europei o per l’indipendenza della banca centrale. Il fatto che la stessa formulazione, applicata in Italia, susciti allarme è indicativo di quanto spesso il nostro Paese venga guardato con sospetto preventivo.

Va ricordato che il governo non avrebbe in alcun caso la possibilità di utilizzare le riserve per coprire pensioni, deficit o spesa corrente. Ogni tentativo in questa direzione sarebbe respinto dai mercati e vietato dalla stessa cornice europea. La Banca d’Italia rimarrebbe pienamente autonoma nella gestione tecnica e finanziaria delle riserve, come stabilito dai trattati e dal principio di indipendenza delle banche centrali. L’emendamento si limita a precisare un fatto già vero: l’oro è patrimonio dello Stato, non di un’entità sovranazionale. Che poi questo patrimonio sia vincolato e inaccessibile per la politica quotidiana è un’altra questione, del tutto distinta, che l’emendamento non modifica.

Perché, allora, tanto rumore per un atto che non cambia nulla nella sostanza? La ragione è probabilmente politica. In Europa, ogni riaffermazione dell’identità o della sovranità nazionale viene talvolta letta come un segnale di frizione o di tentazione euroscettica, anche quando tale lettura non è giustificata dai testi. Eppure, riaffermare la proprietà nazionale delle riserve auree non è un passo indietro rispetto all’integrazione europea, ma un semplice richiamo a una realtà giuridica che i trattati non hanno mai voluto né potuto alterare. La BCE avrebbe potuto, più serenamente, prendere atto della natura meramente interpretativa dell’emendamento e riconoscere che esso non incide sulla governance dell’Eurosistema. La scelta di lanciare un segnale così severo rischia invece di alimentare la percezione che ogni gesto di chiarimento nazionale venga guardato con sospetto, quasi fosse un preludio a un’infrazione politica. Non è così, e sarebbe utile che anche a Francoforte ciò fosse riconosciuto.

In conclusione, ricordare che l’oro della Banca d’Italia è un patrimonio del popolo italiano non rappresenta una minaccia per l’Europa né un tentativo di eludere le regole comuni. È un’affermazione di buon senso, perfettamente compatibile con i trattati e con l’indipendenza della Banca d’Italia. E proprio perché è così ovvia, stupisce che sia diventata oggetto di contestazione. Forse la vera questione non è l’oro, ma il riflesso condizionato con cui talvolta si guarda alle iniziative italiane: come se affermare ciò che è nostro fosse automaticamente un gesto sospetto. In un’Unione che vuole essere basata sul rispetto reciproco, anche questo merita di essere discusso senza pregiudizi. Per restare sempre aggiornato scarica GRATIS la nostra App!