L’Inno di Mameli cambia nella sua versione ufficiale di Stato: un decreto del Presidente della Repubblica, firmato lo scorso 14 marzo su proposta del governo e pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 7 maggio 2025, impone per le esecuzioni istituzionali del Canto degli Italiani l’eliminazione del tradizionale grido “Sì!” che segue il verso conclusivo “L’Italia chiamò”. La disposizione, resa operativa nelle ultime settimane da una direttiva dello Stato Maggiore della Difesa indirizzata a tutte le articolazioni delle Forze armate, interviene su una consuetudine radicata da decenni nella prassi esecutiva dell’inno nazionale, alimentando un acceso dibattito che intreccia questioni filologiche, sensibilità simboliche e risvolti politico-istituzionali.
Il provvedimento trae origine dalla legge 4 dicembre 2017, n. 181, che ha riconosciuto formalmente il Canto degli Italiani di Goffredo Mameli quale inno nazionale della Repubblica e ha demandato a un successivo decreto presidenziale la definizione delle “modalità di esecuzione” del brano nelle cerimonie pubbliche. Proprio nell’ambito di questo quadro normativo si inserisce il decreto del 14 marzo 2025, che recepisce lo schema approvato dal Consiglio dei ministri e stabilisce il riferimento testuale e musicale cui attenersi in occasione di eventi istituzionali, celebrazioni civili, ricorrenze nazionali e protocolli di rappresentanza dello Stato.
Il cuore della scelta riguarda il finale, da sempre vissuto dal pubblico italiano come un crescendo emotivo: la chiusa “Stringiamci a coorte, siam pronti alla morte, l’Italia chiamò”, nella versione cantata più diffusa, viene seguita da un pronunciato e spesso gridato “Sì!”, divenuto marchio sonoro di manifestazioni sportive, eventi pubblici e raduni collettivi. Il decreto presidenziale, invece, sancisce che, nelle esecuzioni ufficiali, il brano si concluda con il verso di Mameli senza ulteriori parole, lasciando eventualmente soltanto la coda strumentale, come in alcune storiche interpretazioni scelte dal Quirinale come modello esecutivo.
La decisione ha preso forma operativa attraverso un “foglio” dello Stato Maggiore della Difesa, datato 2 dicembre, con cui si dispone che “in occasione di eventi e cerimonie militari di rilevanza istituzionale, ogniqualvolta venga eseguito ‘Il Canto degli Italiani’ nella versione cantata, non dovrà essere pronunciato il ‘Sì!’ finale”. Il documento, firmato da un generale del primo reparto dello Stato Maggiore e diramato ai comandi di Esercito, Marina, Aeronautica, Guardia di Finanza e alle altre componenti della Difesa, richiede la “scrupolosa osservanza” dell’istruzione fino all’ultimo presidio territoriale, formalizzando una prassi che in alcune cerimonie era già stata adottata, ma che nella realtà delle caserme e dei reparti registrava ancora comportamenti disomogenei.
Dal Quirinale la scelta viene presentata come un adeguamento filologico al “testo primigenio” di Goffredo Mameli, sollecitato, secondo fonti istituzionali, dall’ambiente musicale e dalle stesse bande militari, interessate ad avere un riferimento univoco e coerente con i documenti originali. Nel manoscritto autografo del 1847, conservato al Museo del Risorgimento di Torino, il giovane poeta genovese non inserisce infatti alcun “Sì” dopo la frase “l’Italia chiamò”, che chiude il ritornello. A quella sillaba giunge invece il musicista Michele Novaro, autore della partitura, che nello spartito originale introduce il grido finale come coronamento del crescendo e lo definisce, nelle sue note, “un grido supremo, il quale è un giuramento e un grido di guerra”, chiedendo quasi scusa a Mameli per l’aggiunta ma rivendicandone la funzione espressiva.
La tensione tra il testo scritto dal poeta e l’elaborazione musicale del compositore rappresenta uno degli elementi più discussi in queste ore. Se il decreto richiama formalmente il “testo di Goffredo Mameli” e lo spartito di Novaro come riferimenti ufficiali, l’interpretazione scelta dal Colle come modello – quella con il tenore Mario Del Monaco, eseguita in occasione del Centenario dell’Unità nel 1961 – propone un finale senza il grido “Sì”, con l’accento affidato alla parte musicale conclusiva. In questo modo, la versione destinata alle cerimonie di Stato risulta più aderente al manoscritto letterario, ma non corrisponde alla pratica, ormai radicata, degli stadi, delle piazze e di molte occasioni pubbliche in cui l’urlo collettivo rafforza il senso di partecipazione.
La normativa, però, ha un raggio di applicazione ben definito. Il decreto del Presidente della Repubblica, attuativo della legge del 2017, disciplina le modalità di esecuzione dell’inno nazionale nelle occasioni istituzionali e pubbliche, in particolare quando sono coinvolte le più alte cariche dello Stato, le feste civili riconosciute, le ricorrenze militari e gli eventi in cui l’esecuzione del Canto degli Italiani assume valore solenne e rappresentativo della Repubblica. Per tali contesti viene precisato che il brano deve essere eseguito secondo uno schema standardizzato, che prevede la ripetizione delle prime quartine e del ritornello, ma senza aggiunte verbali al testo ufficiale. La stessa comunicazione dello Stato Maggiore chiarisce che l’omissione del “Sì” riguarda in via vincolante le cerimonie militari di rilevanza istituzionale.
Al di fuori di questi scenari, resta formalmente possibile che il canto popolare continui a vivere nella forma consuetudinaria. Nelle curve degli stadi, durante gli incontri della nazionale di calcio o di altre selezioni sportive, nelle manifestazioni spontanee e negli eventi che non rientrano nel perimetro del cerimoniale di Stato, nulla, sul piano strettamente giuridico, vieta al pubblico di concludere l’inno con il tradizionale “Sì”, che negli anni è diventato un elemento identitario e un tratto distintivo dell’immaginario collettivo. La distinzione tra versione “istituzionale” e versione “sociale” del Canto degli Italiani – concetto non codificato ma di fatto emergente dalla nuova disciplina – rischia tuttavia di alimentare incertezze interpretative e discussioni sul piano culturale, oltre che di incidere sulla percezione pubblica dei simboli nazionali.
Sul piano storico, la vicenda mette in luce anche l’evoluzione del rapporto tra l’Italia repubblicana e il proprio inno. Il Canto degli Italiani nacque infatti nel 1847 a Genova come canto risorgimentale, troppo connotato in senso repubblicano per essere adottato come inno ufficiale dal Regno d’Italia, che preferì la Marcia Reale sabauda. Solo nel 1946, all’indomani della caduta della monarchia, il brano venne scelto come inno nazionale della nuova Repubblica, inizialmente in via provvisoria e senza una specifica legge di riconoscimento, situazione che si è protratta fino al 2017. L’intervento normativo recente, con la legge 181 e con il decreto sulle modalità di esecuzione, chiude una lunga fase di incertezza giuridica, ma al tempo stesso riapre un confronto sull’equilibrio tra rigore filologico e tradizione performativa.
Il dibattito che si è acceso nelle ultime ore, a seguito delle anticipazioni di stampa e delle prese di posizione circolate sui media, ruota attorno ad alcuni interrogativi di fondo. Da un lato, la legittimità dell’intervento viene ricondotta all’esigenza di dare piena attuazione alla legge che riconosce il Canto degli Italiani come inno nazionale, colmando una lacuna normativa e offrendo a istituzioni, scuole, amministrazioni e Forze armate un riferimento univoco sulla corretta esecuzione del brano. Dall’altro, la rimozione del “Sì” finale viene letta da parte dell’opinione pubblica come una cesura rispetto a una lunga consuetudine, che ha contribuito a sedimentare il significato emotivo dell’inno e a rafforzare l’identificazione collettiva con le sue parole.
Sul fronte strettamente tecnico, la modifica non altera la struttura del testo di Mameli, che rimane invariato nei suoi versi, né interviene sulle strofe spesso omesse nelle esecuzioni contemporanee, ma incide sulla chiusura vocalica, eliminando la sillaba aggiunta da Novaro. Il significato letterale del verso “siam pronti alla morte, l’Italia chiamò” rimane intatto e continua a esprimere l’idea di un impegno estremo per la difesa della patria, mentre viene meno il rafforzamento sonoro rappresentato dall’urlo finale, che nel corso del Novecento ha assunto anche il valore di un giuramento collettivo. La scelta istituzionale segnala dunque una prevalenza del criterio filologico sulla dimensione performativa, lasciando al contesto sociale la facoltà di mantenere o meno quella coda simbolica.
Nei prossimi mesi sarà la prassi a delineare gli effetti concreti del nuovo quadro. Nelle scuole, dove l’inno viene eseguito in occasione di giornate commemorative e momenti di educazione civica, le indicazioni ministeriali e le linee guida che discenderanno dal decreto presidenziale orienteranno insegnanti e studenti verso la versione senza “Sì”, contribuendo a consolidare una generazione abituata a una chiusura più aderente al manoscritto originario. Nelle Forze armate, l’applicazione della direttiva dello Stato Maggiore uniformerà cerimonie, alzabandiera, giuramenti e commemorazioni, riducendo lo spazio per interpretazioni spontanee.
Parallelamente, il mondo dello sport, dell’associazionismo e dello spettacolo si troverà a misurarsi con una doppia percezione dell’inno: da un lato, quello codificato dalle istituzioni e destinato ai contesti formali; dall’altro, quello vissuto dal pubblico, che potrà continuare a intrecciare parole, musica e gesto collettivo secondo schemi consolidati. In questo quadro, il dibattito sull’eliminazione del “Sì” dopo “l’Italia chiamò” si inserisce in una riflessione più ampia sul modo in cui una comunità nazionale riconosce, interpreta e aggiorna i propri simboli, oscillando tra la fedeltà ai documenti storici e la forza delle pratiche condivise che nel tempo ne hanno modellato l’immagine.
Per il momento, la novità più immediata riguarda il protocollo istituzionale: nelle cerimonie militari ufficiali, nelle celebrazioni alla presenza del Presidente della Repubblica o delle massime cariche, nelle ricorrenze come la Giornata dell’Unità nazionale, della Costituzione, dell’Inno e della Bandiera, l’esecuzione del Canto degli Italiani dovrà fermarsi al verso scritto da Mameli, lasciando alla sola musica il compito di chiudere il brano. Un cambiamento apparentemente minimo nella forma, ma destinato a incidere sull’immaginario sonoro della Repubblica, segnando una nuova fase nel rapporto tra il Paese e il suo inno nazionale. Per restare sempre aggiornato scarica GRATIS la nostra App!
