Massimo Giuseppe Bossetti, nato il 28 ottobre 1970 a Clusone, rappresenta una delle figure più controverse della cronaca nera italiana degli ultimi anni, protagonista stasera della prima puntata di Belve Crime su Rai 2 con un’intervista esclusiva dal carcere di Bollate condotta da Francesca Fagnani. L’uomo, condannato all’ergastolo per l’omicidio della tredicenne Yara Gambirasio, ha sempre proclamato la propria innocenza, alimentando un dibattito che continua a dividere l’opinione pubblica italiana.
La vita di Bossetti prima dell’arresto avvenuto il 16 giugno 2014 scorreva secondo i ritmi di una normalità quasi maniacale, caratterizzata da una routine quotidiana che lo vedeva lavorare come carpentiere muratore nei cantieri del Bergamasco, guidando il suo Daily per spostarsi da un lavoro all’altro. La sera rientrava nella casa di Mapello dove viveva con la moglie Marita Comi, sposata nel 1999, e i loro tre figli: Nicolas di 23 anni, Alice di 21 anni e Aurora di 18 anni. La famiglia Bossetti conduceva un’esistenza apparentemente serena, scandita dalle cene insieme, dalle uscite domenicali al parco acquatico e dall’accompagnamento dei bambini alle loro attività sportive, tra cui la ginnastica ritmica presso il centro di Sotto il Monte.
La personalità di Massimo emergeva come quella di un uomo metodico e riservato, descritto dai testimoni dell’epoca come un bambino solitario che non legava facilmente con gli altri, a differenza della sorella gemella Laura Letizia, più espansiva e socievole. Durante l’infanzia nel quartiere dove abitava si vociferava che soffrisse di crisi epilettiche, episodi durante i quali sveniva e iniziava a tremare, tanto che in un’occasione fu necessario chiamare l’ambulanza. Il rapporto con i genitori, in particolare con la madre Ester Arzuffi, donna descritta come autoritaria, ben vestita e appariscente, sarebbe stato al centro delle successive analisi psicologiche condotte durante il processo.
La vita di Bossetti fu sconvolta dal caso di Yara Gambirasio, la ginnasta tredicenne di Brembate di Sopra scomparsa il 26 novembre 2010 mentre rientrava da una lezione di ginnastica ritmica e il cui corpo fu rinvenuto il 26 febbraio 2011 in un campo a Chignolo d’Isola. Le indagini si protrassero per anni senza risultati concreti, fino a quando la svolta decisiva arrivò attraverso l’analisi del DNA trovato sugli indumenti della vittima, una traccia genetica inizialmente classificata come “Ignoto 1” che avrebbe rappresentato l’elemento chiave per l’identificazione del presunto assassino.
Il percorso investigativo che condusse a Bossetti fu complesso e articolato, caratterizzato da uno screening di massa che coinvolse oltre 20.000 persone tra prelievi di DNA e controlli genealogici. La svolta arrivò quando gli investigatori, attraverso un campione parzialmente compatibile appartenente a Damiano Guerinoni, iniziarono a seguire una pista genealogica che li portò a scoprire che Giuseppe Guerinoni, un autista di autobus deceduto nel 1999, era il padre biologico del misterioso Ignoto 1. Questa rivelazione condusse gli inquirenti a riesumare la salma di Guerinoni e ad avviare una ricerca tra le donne della Val Seriana per individuare la madre biologica, completando così il mosaico genetico.
L’attenzione si concentrò quindi su Ester Arzuffi, madre di Massimo Bossetti, e gli esami confermarono una verità che avrebbe sconvolto la famiglia: Bossetti era figlio biologico di Giuseppe Guerinoni e non di Giovanni Bossetti, l’uomo che aveva sempre considerato suo padre e che morì la vigilia di Natale del 2015. Il 16 giugno 2014, i Carabinieri effettuarono un prelievo a sorpresa su Bossetti mentre si trovava al lavoro su un’impalcatura in un cantiere di Dalmine, e il confronto tra i due profili genetici diede un risultato che la magistratura definì inequivocabile: la corrispondenza era totale.
Oltre al DNA, altri elementi contribuirono a rafforzare il quadro accusatorio nei confronti del muratore di Mapello. Sui vestiti di Yara furono rinvenute fibre compatibili con la tappezzeria del furgone utilizzato da Bossetti, mentre le celle telefoniche rilevarono la presenza del suo cellulare nella zona di Brembate Sopra proprio nel giorno della scomparsa della ragazza. L’alibi fornito durante le indagini, secondo cui sarebbe rimasto a casa quella sera, fu smentito dai riscontri investigativi, contribuendo ad alimentare i sospetti e a consolidare l’impianto accusatorio che portò alla condanna definitiva all’ergastolo confermata dalla Cassazione nel 2018.
Durante il processo, Bossetti si descrisse come un uomo semplice, dedito esclusivamente alla famiglia, privo di hobby particolari e abituato a una vita tra le mura domestiche dove poteva godere di due ore serali con i figli prima che andassero a letto. Ammise di guardare film pornografici dopo le 21, spiegando che servivano per “trovare un po’ di intimità” con la moglie, e raccontò del suo rapporto con la madre Ester, descrivendolo come “bellissimo” nonostante le tensioni che periodicamente emergevano in famiglia.
La moglie Marita Comi, attualmente 45enne, ha continuato a vivere nella casa di Mapello con i tre figli, trovando lavoro in una ditta di pulizie per mantenere la famiglia dopo l’arresto del marito. Inizialmente titubante, la donna ha poi scelto di sostenere pubblicamente l’innocenza di Massimo, mantenendo un rapporto con lui durante la detenzione nonostante le enormi difficoltà create dalla pressione mediatica e sociale. I figli sono cresciuti lontano dai riflettori, protetti dalla madre: Nicolas, il primogenito di 23 anni, lavora in un’azienda artigiana e ha rifiutato offerte mediatiche importanti come la partecipazione al Grande Fratello 2024, dimostrando di non voler sfruttare il cognome per ottenere notorietà.
Oggi Massimo Bossetti si trova detenuto nel carcere di Bollate, dove ha rilasciato l’intervista esclusiva che andrà in onda stasera nel nuovo programma di Francesca Fagnani. Nel colloquio, descritto come inedito e a tratti teso, Bossetti ripercorre per la prima volta in modo dettagliato i momenti più delicati della sua vicenda giudiziaria. Interrogato sul DNA trovato sugli slip e sui leggings di Yara, l’ex muratore ha dichiarato che tutto gli appare “assurdo” e di non aver “mai compreso” come il suo materiale genetico sia finito sui vestiti della vittima. Particolarmente significativa la sua osservazione sul DNA nucleare, che secondo lui “normalmente si dovrebbe disperdere in poche settimane invece era ancora presente”, mentre il DNA mitocondriale, “che è risaputo da tutti che non si può disperdere, non c’è”, alimentando i suoi dubbi sull’intera vicenda processuale che lo ha portato alla condanna definitiva.