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“Paghiamo per i tuoi vestiti usati”: come funziona la truffa della falsa beneficenza a Natale

Annunci ingannevoli su social e WhatsApp promettono denaro per abiti usati, nascondendo un meccanismo di phishing che sottrae dati bancari e identità sfruttando il periodo natalizio.

Il periodo delle festività natalizie, tradizionalmente caratterizzato da un incremento della solidarietà e della propensione al dono, si sta rivelando nel 2025 un terreno fertile per una sofisticata tipologia di frode informatica che sfrutta cinicamente la buona fede dei cittadini. Nelle ultime settimane, le bacheche di Facebook e le chat di WhatsApp sono state invase da annunci sponsorizzati che promettono un guadagno immediato in cambio della cessione di abiti usati, presentandosi come iniziative di riciclo o di beneficenza retribuita . Sotto la superficie di queste offerte, apparentemente vantaggiose sia per il portafoglio che per l’ambiente, si cela un meccanismo di phishing articolato, volto alla sottrazione di dati sensibili e coordinate bancarie.

L’esca del guadagno facile e il modus operandi

Il primo contatto avviene quasi invariabilmente attraverso i social network, dove profili apparentemente legittimi diffondono post con slogan accattivanti come «Paghiamo i tuoi vestiti usati fino a 15 euro ogni 3 chili» o «Liberati del superfluo e guadagna subito». L’annuncio fa leva su due potenti motivazioni psicologiche: il desiderio di fare ordine in casa prima dell’inizio del nuovo anno e la possibilità di ottenere liquidità immediata con uno sforzo minimo. Una volta che l’utente clicca sull’inserzione, viene reindirizzato verso una conversazione privata, spesso su WhatsApp, o su portali web creati ad hoc che imitano la grafica di note piattaforme di vendita second-hand o, peggio, di associazioni umanitarie realmente esistenti.

Il presunto operatore che gestisce la chat rassicura la vittima sulla gratuità del ritiro a domicilio, confermando che un corriere passerà a prelevare i sacchi di indumenti. Tuttavia, per formalizzare la pratica e, teoricamente, erogare il pagamento pattuito, viene richiesto l’inserimento di una serie di dati personali estremamente dettagliati in un modulo online non protetto. È in questa fase che si consuma il primo livello della truffa: i cybercriminali esigono nome, cognome, indirizzo di residenza, numero di telefono e, soprattutto, il codice IBAN o i dati della carta di credito, giustificando tale richiesta come necessaria per l’accredito del compenso.

Dai dati bancari al furto d’identità

Gli esperti di sicurezza informatica sottolineano come la richiesta dell’IBAN in questo contesto sia un segnale d’allarme inequivocabile, poiché le compravendite sicure tra privati si appoggiano solitamente a piattaforme intermedie che gestiscono i pagamenti senza esporre le coordinate bancarie dirette nelle fasi preliminari. Una volta in possesso di questi dati, i truffatori non si limitano a non inviare alcun corriere e a non pagare la somma promessa, ma utilizzano le informazioni acquisite per scopi ben più gravi. Le coordinate bancarie possono essere impiegate per tentare addebiti diretti non autorizzati, mentre l’insieme dei dati anagrafici alimenta il mercato nero delle identità digitali, permettendo ai malviventi di commettere ulteriori illeciti a nome della vittima ignara.

In alcune varianti della truffa, il raggiro diventa ancora più aggressivo: dopo aver raccolto i dati, l’operatore chiede un piccolo pagamento anticipato, solitamente di pochi euro, giustificandolo come «spesa di apertura pratica», «assicurazione sulla spedizione» o «tassa di sblocco del bonifico». Questa richiesta paradossale, che vede il venditore dover pagare per ricevere denaro, sfrutta la tecnica del «sunk cost fallacy» (fallacia dei costi irrecuperabili), spingendo la vittima a versare una piccola somma pur di non perdere il guadagno maggiore promesso, consegnando così definitivamente anche i codici di sicurezza delle proprie carte di pagamento.

Il danno alle vere organizzazioni umanitarie

Un aspetto particolarmente odioso di questo fenomeno è il coinvolgimento involontario di enti benefici reali. Organizzazioni note come Humana People to People Italia o consorzi come il Conai si sono visti costretti a diramare comunicati ufficiali per disconoscere profili social e gruppi WhatsApp che utilizzavano abusivamente i loro loghi per conferire credibilità alla truffa. Queste associazioni ribadiscono costantemente che la raccolta di abiti usati a fini umanitari avviene tramite i cassonetti stradali autorizzati o centri di raccolta dedicati e, soprattutto, non prevede mai un compenso in denaro per il donatore, basandosi sul principio della gratuità del dono. La diffusione di queste frodi rischia di generare un clima di diffidenza generalizzata che danneggia il tessuto della solidarietà reale, sottraendo risorse preziose a chi opera legittimamente nel settore del riciclo e dell’assistenza ai bisognosi.

Le raccomandazioni delle autorità

Le forze dell’ordine e le associazioni dei consumatori invitano alla massima cautela di fronte a proposte commerciali che appaiono fuori mercato o eccessivamente vantaggiose. La Polizia Postale raccomanda di verificare sempre l’affidabilità del sito o della pagina social che propone l’affare, controllando la presenza di recensioni verificate e, soprattutto, l’URL della pagina di destinazione, che nei casi di phishing presenta spesso lievi discrepanze rispetto ai domini ufficiali. La regola fondamentale resta quella di non condividere mai dati bancari, PIN o password in risposta a messaggi non sollecitati su piattaforme di messaggistica istantanea, ricordando che nessuna azienda legittima richiede pagamenti anticipati per erogare un compenso dovuto . In un momento storico in cui la tecnologia permea ogni aspetto della quotidianità, la consapevolezza digitale diventa l’unico vero scudo contro chi tenta di trasformare lo spirito natalizio in un’occasione di profitto illecito. Per restare sempre aggiornato scarica GRATIS la nostra App!