Negli ultimi dieci anni, un fiume silenzioso ma imponente di denaro pubblico è arrivato nelle redazioni dei principali media italiani ed europei. Stiamo parlando di oltre un miliardo di euro stanziati dalle istituzioni dell’Unione Europea per finanziare, in vario modo, testate giornalistiche, agenzie di stampa, piattaforme di comunicazione e persino società di produzione podcast e contenuti digitali. Il dato emerge da un’inchiesta de La Verità, che mette nero su bianco cifre, nomi e modalità con cui Bruxelles ha sostenuto economicamente il mondo dell’informazione, spesso senza che il grande pubblico ne fosse pienamente consapevole.
A prima vista, potrebbe sembrare una politica ragionevole: l’Europa si preoccupa di informare i propri cittadini, spiegando le sue attività, le sue politiche e i benefici derivanti dall’appartenenza all’Unione. Ma a uno sguardo più attento, questa dinamica solleva interrogativi legittimi e profondi sul ruolo dell’informazione in democrazia, sull’indipendenza editoriale e sul pluralismo dell’opinione pubblica.
Secondo quanto riportato dall’inchiesta, tra i principali beneficiari italiani dei fondi europei figurano testate e agenzie molto conosciute. Al primo posto c’è ANSA, con ben 5,6 milioni di euro ricevuti. Segue la RAI con 2 milioni, poi Il Sole 24 Ore (1,5 milioni), il Gruppo GEDI (190.000 euro), Chora Media, Internazionale e Domani, con cifre che oscillano tra i 100.000 e i 180.000 euro.
I finanziamenti hanno preso forme diverse: bandi per la “promozione della cittadinanza europea”, progetti per “contrastare la disinformazione”, campagne informative sulle politiche comunitarie, contratti pubblicitari, e così via. Nulla di illegittimo, certo. Ma è il quadro complessivo a far riflettere: si nota una tendenza piuttosto marcata nel selezionare come partner media che si sono sempre dimostrati, se non apertamente filo-europei, quantomeno poco critici nei confronti di Bruxelles.
In una democrazia, i media dovrebbero svolgere il ruolo di “cani da guardia del potere”, vigilando, indagando, ponendo domande scomode, anche – e forse soprattutto – quando il potere si esercita a livello sovranazionale. Ma quando quel potere finanzia direttamente chi dovrebbe monitorarlo, il confine tra informazione e comunicazione istituzionale si fa sempre più sfumato.
Il problema non è la corruzione o la manipolazione esplicita, ma il condizionamento indiretto, quasi strutturale. Un giornale che riceve fondi europei potrebbe, magari inconsciamente, evitare di approfondire certi fallimenti dell’UE, minimizzare certe criticità, esaltare i vantaggi e tacere i costi. Non per malafede, ma perché l’ambiente culturale ed economico in cui si muove lo spinge in quella direzione. In un contesto di crisi del settore editoriale, dove la pubblicità tradizionale è crollata e gli abbonamenti faticano a sostenere i bilanci, i fondi pubblici rappresentano una boccata d’ossigeno. Ma questo ossigeno non è gratuito: comporta una dipendenza economica e, quindi, anche narrativa.
Il punto centrale non è accusare i media di servilismo, ma difendere il principio del pluralismo informativo, che è la base di ogni dibattito democratico. Se solo una certa visione del mondo – quella favorevole all’integrazione europea, al federalismo comunitario, alla linea economica e ambientale dettata da Bruxelles – riceve ascolto, mentre visioni alternative vengono marginalizzate per mancanza di risorse, il risultato è un ecosistema mediatico sempre più omogeneo e, di fatto, autoreferenziale.
Le voci critiche, spesso etichettate come “populiste”, “antieuropeiste” o “sovraniste”, faticano a trovare spazi di espressione, non per mancanza di argomenti, ma per assenza di mezzi. Mentre le testate che veicolano la narrativa dominante godono di un supporto che permette loro di amplificare la propria voce, raggiungendo un pubblico sempre più ampio attraverso campagne social, progetti editoriali transnazionali e contenuti digitali sponsorizzati.
Non si tratta di abolire ogni forma di sostegno pubblico all’informazione. In certi contesti, soprattutto locali o di nicchia, può avere una funzione positiva. Ma serve trasparenza, equità e soprattutto un dibattito pubblico serio su chi riceve cosa e perché. Ogni finanziamento pubblico, in democrazia, deve essere giustificato e sottoposto a controllo. E nel caso specifico dei fondi europei alla stampa, dovrebbe essere chiaro se l’obiettivo è informare o indirizzare. Promuovere consapevolezza o influenzare il consenso.
Una possibile via è quella di vincolare tali fondi a progetti con finalità educative, scientifiche o di utilità sociale, senza condizionamenti ideologici. Oppure, meglio ancora, creare meccanismi indipendenti che garantiscano la distribuzione delle risorse secondo criteri pluralisti, aperti anche a voci critiche e alternative, senza favoritismi politici o editoriali. L’indipendenza dell’informazione non si misura solo in base all’assenza di padroni o azionisti, ma anche – e forse soprattutto – in base alla sua libertà economica. Un media che dipende dai finanziamenti pubblici, siano essi statali o europei, non sarà mai pienamente libero di criticare chi lo finanzia.
In un’epoca in cui la fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni è in calo e il rapporto tra popolo e potere si fa sempre più fragile, è fondamentale che la stampa torni ad essere strumento di controllo, non di legittimazione. L’Europa che vogliamo non ha paura delle critiche e l’informazione che serve ai cittadini non ha bisogno di sussidi per dire la verità.