Il gruppo parlamentare di Forza Italia al Senato ha presentato oggi una proposta di legge costituzionale che prevede la modifica sostanziale dell’articolo 75 della Costituzione italiana, con l’obiettivo di raddoppiare il numero di sottoscrizioni necessarie per richiedere un referendum abrogativo, portandolo dalle attuali 500.000 firme a 1.000.000, e incrementando contemporaneamente da cinque a dieci il numero minimo di Consigli regionali richiesti per avviare la procedura referendaria. La proposta arriva a poche ore dalla chiusura delle urne del referendum dell’8 e 9 giugno, che ha registrato un clamoroso fallimento con un’affluenza attestatasi intorno al 30%, ben al di sotto della soglia del 50% più uno necessaria per raggiungere il quorum di validità.
Il capogruppo azzurro a Palazzo Madama, Maurizio Gasparri, ha motivato l’iniziativa sottolineando come si tratti di “rafforzare e di non banalizzare uno strumento di democrazia il cui abuso può portare al fallimento”, evidenziando la necessità di agire “con tempestività” per aprire una riflessione che porti a “una rapida decisione in materia”. La proposta legislativa si inserisce nel solco delle dichiarazioni rilasciate dal segretario nazionale di Forza Italia, Antonio Tajani, che nelle ore successive alla chiusura dei seggi ha espresso la convinzione che “servono probabilmente più firme”, criticando aspramente i costi sostenuti dallo Stato per organizzare consultazioni destinate al fallimento, con particolare riferimento alle “centinaia di migliaia, milioni di schede per gli italiani all’estero che sono tornate bianche”.
La strategia del partito guidato da Tajani si basa sulla constatazione che l’introduzione delle tecnologie digitali per la raccolta delle firme, conquistata nel 2021 dopo una lunga battaglia condotta dal leader radicale Mario Staderini, ha notevolmente semplificato l’accesso allo strumento referendario, consentendo di superare gli ostacoli burocratici rappresentati dalle autenticazioni cartacee. Tuttavia, secondo la visione di Forza Italia, questa facilitazione procedurale ha paradossalmente contribuito a una “banalizzazione” dell’istituto, permettendo la proliferazione di quesiti privi del necessario radicamento popolare e destinati inevitabilmente a infrangersi contro lo scoglio del quorum>. Il ragionamento sotteso alla proposta legislativa poggia sull’assunto che un incremento significativo delle soglie di accesso costringerebbe i promotori a costruire un consenso più ampio e strutturato, garantendo una maggiore probabilità di successo delle consultazioni popolari.
La posizione di Forza Italia trova consonanza nell’intero schieramento di centrodestra, con diversi esponenti della maggioranza che hanno espresso valutazioni analoghe nelle ore successive al flop referendario. Il vicepresidente della Camera Fabio Rampelli di Fratelli d’Italia ha sostenuto che “è giunto il momento” di rivedere al rialzo il numero minimo di firme, argomentando che “se il numero di firme è adeguato i promotori dovranno coinvolgere più soggetti e il numero più alto di firmatari corrisponderà a un maggior numero di cittadini coinvolti nella campagna referendaria”. Anche il leader di Noi Moderati Maurizio Lupi ha annunciato l’intenzione di presentare un disegno di legge per “alzare il tetto delle firme da 500 mila a un milione”, inquadrando l’iniziativa come una risposta necessaria alla “sconfitta clamorosa” subita dalla sinistra e dai sindacati.
Il dibattito sulla riforma dell’istituto referendario si articola tuttavia su due direttrici contrapposte, che riflettono visioni profondamente diverse del ruolo della democrazia diretta nell’ordinamento costituzionale italiano. Mentre il centrodestra propende per un irrigidimento delle condizioni di accesso, considerando l’attuale sistema troppo permissivo e foriero di sprechi, una parte consistente delle opposizioni e del mondo associativo sostiene invece la necessità di eliminare completamente il quorum di partecipazione previsto dall’articolo 75 della Costituzione. Mario Staderini, già protagonista della battaglia per l’introduzione della firma digitale, ha lanciato proprio in questi giorni una nuova campagna denominata “Basta quorum!”, che in sole cinque ore ha raccolto oltre 5.000 adesioni sulla piattaforma del Ministero della Giustizia.
La proposta di abolizione del quorum si fonda su argomentazioni di carattere tecnico-giuridico che trovano autorevole sostegno nella Commissione di Venezia del Consiglio d’Europa, organismo che raccomanda esplicitamente di non prevedere soglie di partecipazione nei referendum per evitare effetti distorsivi sulla volontà popolare. I sostenitori di questa linea evidenziano come il quorum, concepito ottanta anni fa in un contesto caratterizzato da affluenze superiori al 90% e da sanzioni per l’astensione, risulti oggi anacronistico di fronte al generalizzato calo della partecipazione elettorale, che spesso si attesta al di sotto del 50% anche per le consultazioni politiche, europee e regionali. L’esperienza internazionale, secondo questa prospettiva, dimostrerebbe la maggiore efficacia di sistemi privi di quorum, come quelli adottati in Svizzera, Stati Uniti e in diverse democrazie europee, dove la partecipazione risulterebbe più elevata e consapevole.
Il segretario di +Europa Riccardo Magi ha definito il quorum un “ostacolo alla democrazia” e un “vulnus” democratico, annunciando l’intenzione di proporre alle forze parlamentari una riforma costituzionale per la sua eliminazione. Questa posizione trova eco anche nel segretario della Cgil Maurizio Landini, che pur riconoscendo il mancato raggiungimento del quorum ha sottolineato come “oltre 14 milioni” di persone abbiano comunque partecipato al voto, rappresentando “un numero di partenza” significativo per future iniziative. Il dibattito assume quindi i contorni di uno scontro più ampio tra concezioni diverse della partecipazione democratica, con il centrodestra che privilegia la qualità e la selettività dell’accesso agli strumenti di democrazia diretta, mentre le opposizioni insistono sulla necessità di abbattere ogni barriera procedurale.
La tempistica della proposta di Forza Italia appare strategicamente calibrata per capitalizzare il fallimento dei cinque quesiti referendari su lavoro, sicurezza e cittadinanza, che hanno registrato una partecipazione stimata intorno al 30% secondo i dati parziali disponibili. Il centrodestra interpreta questo risultato come una “sconfitta della sinistra” e dell’opposizione che “voleva tentare l’assalto al governo utilizzando il grimaldello dei referendum”, come ha dichiarato Tajani, aggiungendo che “il governo si è rafforzato, l’opposizione si è indebolita”. Questa lettura politica del voto referendario orienta inevitabilmente anche le scelte legislative future, con la maggioranza che intende procedere speditamente verso una riforma che consolidi il proprio vantaggio elettorale e limiti le possibilità di iniziativa dell’opposizione attraverso lo strumento referendario.
L’iter procedurale della proposta di Forza Italia si preannuncia tuttavia complesso, considerando che la modifica dell’articolo 75 della Costituzione richiede un procedimento di revisione costituzionale particolarmente articolato, con doppia deliberazione da parte di ciascuna Camera a distanza di almeno tre mesi e possibile ricorso al referendum confermativo qualora non si raggiunga la maggioranza dei due terzi. Il successo dell’iniziativa dipenderà quindi dalla capacità del centrodestra di mantenere una posizione unitaria durante l’intero percorso parlamentare e di resistere alle pressioni dell’opposizione, che certamente non rinuncerà a contrastare una riforma percepita come limitativa dei diritti di partecipazione democratica. Il confronto si sposterà quindi dalle piazze alle aule parlamentari, dove si deciderà il futuro di uno degli strumenti più caratteristici della democrazia italiana.