La polemica che in questi giorni investe i Me contro Te nasce da un dato tanto semplice quanto dirompente: il matrimonio annunciato da Luì e Sofì non sarà soltanto una celebrazione privata, ma un evento a pagamento, con biglietti venduti come per un concerto, 50 euro per “esserci” e fino a 250 per garantirsi un posto privilegiato, trasformando quello che nell’immaginario collettivo resta uno dei riti più intimi in un’esperienza premium da acquistare con carta di credito.
Per capire la portata del fenomeno occorre però fare un passo indietro e ricordare chi sono i protagonisti: Luì e Sofì sono da anni tra i volti più noti dell’intrattenimento per bambini e famiglie, nati su YouTube e diventati un brand trasversale capace di riempire cinema, palazzetti e scaffali di giocattoli, con milioni di follower cresciuti insieme a loro e abituati a una relazione che non è più soltanto artistica, ma emotiva, quasi familiare. Il matrimonio, annunciato e raccontato come tappa naturale di questa narrazione continua, si inserisce dunque in un ecosistema dove la distinzione tra vita privata e contenuto è stata da tempo archiviata, e dove ogni passaggio esistenziale diventa storytelling, engagement, monetizzazione.
Fin qui nulla di illegale, e nemmeno di sorprendente, se non fosse che l’operazione segna un ulteriore scarto simbolico: non più il matrimonio raccontato dopo, non più la condivisione filtrata di un momento, ma l’accesso diretto, dal vivo, a pagamento, come se l’amore avesse finalmente trovato la sua tariffa ufficiale. È qui che la questione smette di essere una curiosità da gossip e diventa un fatto culturale, perché l’evento matrimoniale, spogliato di ogni residuo di riservatezza, assume le sembianze di uno show organizzato per un pubblico disposto a pagare pur di sentirsi parte di qualcosa che, per definizione, non dovrebbe prevedere platea. Il sarcasmo viene quasi naturale, ma non è nemmeno necessario forzarlo: basta osservare la dinamica per coglierne l’assurdità elegante, quella per cui si compra un biglietto per assistere a una promessa di amore eterno, con tanto di opzione “prima fila”, come se il valore simbolico del rito aumentasse con la vicinanza al palco.
A questo punto torna inevitabile alla mente una frase che appartiene alla memoria più cinica della televisione italiana, pronunciata senza infingimenti da Wanna Marchi: “Perché i coglioni vanno inculati, cazzo!”, espressione brutale che qui non va letta come un insulto, ma come una fotografia spietata del mercato, dove l’offerta nasce solo perché esiste una domanda pronta a sostenerla. Se c’è chi è disposto a spendere 250 euro per assistere al matrimonio di due influencer, viene da chiedersi se il problema stia davvero in chi vende il biglietto o in chi lo acquista con entusiasmo, convinto di comprare un’emozione autentica quando in realtà sta pagando l’ennesima declinazione di un prodotto.
Il confine con la decenza, va detto, è sottile ma percepibile: non tanto per l’atto in sé, quanto per ciò che rivela di una società in cui tutto è spettacolo e nulla è più sottratto alla logica del consumo, nemmeno l’amore coniugale. Eppure, con un certo fatalismo, bisogna riconoscere che il sistema funziona esattamente così: se il pubblico c’è, il prezzo lo fa il mercato, e indignarsi a posteriori rischia di essere un esercizio sterile. Resta l’amarezza di constatare che anche il matrimonio, ultimo baluardo simbolico di una dimensione privata, sia ormai diventato un format replicabile, vendibile e soprattutto acquistabile, con tanto di ricevuta, lasciandoci il dubbio che a forza di pagare per partecipare alla vita degli altri, si finisca per rinunciare a vivere davvero la propria. Per restare sempre aggiornato scarica GRATIS la nostra App!
