Un fenomeno in espansione sta conquistando progressivamente l’Italia, sulle orme di quanto già accaduto negli Stati Uniti a partire dal 2014 e poi diffusosi rapidamente in Europa: l’adozione, da parte di un numero crescente di ristoranti, hotel, bar e altri esercizi commerciali, di una politica “childfree”, che prevede il divieto d’ingresso ai minori, generalmente sotto i 14 o 18 anni, a seconda dei casi. Una tendenza che mentre solleva polemiche tra i sostenitori dei diritti familiari, trova sempre maggior consenso in una società che sembra ormai riconoscere la necessità di spazi dedicati esclusivamente agli adulti, dove poter godere di momenti di tranquillità senza il disturbo di schiamazzi e comportamenti inadeguati che caratterizzano molti luoghi pubblici frequentati da bambini e adolescenti sempre meno disciplinati.
Il dibattito sulla legittimità dei locali vietati ai minori si è intensificato negli ultimi mesi, con episodi come quello dell’Osteria del Sole di Bologna, dove il titolare ha esposto un cartello che “sconsiglia” l’ingresso ai bambini, non per motivi commerciali ma per ragioni logistiche legate allo spazio limitato del locale e al rischio che la presenza dei più piccoli crei problemi di sicurezza e disturbo. Una situazione emblematica di un problema più ampio, che molti esercenti si trovano ad affrontare quotidianamente: la difficoltà di garantire un servizio adeguato e un’atmosfera piacevole quando bambini poco educati corrono tra i tavoli, urlano e piangono, sotto lo sguardo passivo di genitori che sembrano aver abdicato al proprio ruolo educativo.
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Il fenomeno non è solo italiano, ma ha ormai una dimensione internazionale. A Malta, il ristorante Bohini ha vietato l’ingresso ai minori di 18 anni, spiegando dettagliatamente le ragioni della propria decisione: le dimensioni ridotte del locale, con soli 14 tavoli, rendevano pericolosa la presenza di bambini “lasciati incustoditi” che “scorrazzavano ovunque”, creando pericoli sia per il personale intento a svolgere il proprio lavoro, sia per i bambini stessi. Una decisione difficile ma necessaria, come hanno spiegato i gestori, sottolineando anche la mancanza di rispetto dimostrata da alcuni genitori quando invitati a controllare il comportamento dei propri figli.

È evidente che il moltiplicarsi di locali “adults only” non rappresenti un capriccio degli esercenti o una moda passeggera, bensì la risposta a un problema reale e sempre più diffuso: l’incapacità di molti genitori contemporanei di trasmettere ai propri figli le basilari norme di comportamento in pubblico. Come riporta con chiarezza un ristoratore quarantunenne nella sua testimonianza, non si tratta di “odiare i bambini” ma di “mal sopportare la scarsa educazione dei genitori e la loro mancanza di rispetto verso gli altri”. Locali pensati per offrire un’atmosfera calda e rilassante, accompagnata magari da musica jazz in sottofondo, risultano oggettivamente poco adatti a bambini piccoli che, per loro natura, faticano a mantenere la compostezza richiesta in determinati contesti.
La questione, a ben vedere, non riguarda tanto i bambini quanto l’evidente declino dell’autorità genitoriale nella società contemporanea. Non sorprende che siano spesso gli stessi genitori a dichiararsi favorevoli all’esistenza di locali riservati agli adulti, riconoscendo il desiderio legittimo di trascorrere alcune serate in un ambiente più formale e tranquillo. Il proliferare di strutture “childfree” rappresenta, paradossalmente, il sintomo di una società che ha progressivamente rinunciato a imporre regole e limiti ai più giovani, preferendo creare spazi separati piuttosto che educare adeguatamente le nuove generazioni al rispetto degli spazi condivisi.
Sul piano giuridico, la questione dei locali “childfree” solleva interrogativi legittimi. L’articolo 3 della Costituzione italiana sancisce l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, indipendentemente da genere, stato civile e condizioni economiche e sociali, e l’età anagrafica rientra sicuramente in questo principio. Il Regio Decreto n. 635 del 1940, inoltre, prevede che gli esercenti non possano, “senza un legittimo motivo”, rifiutare le prestazioni del proprio esercizio a chi le domandi e ne paghi il prezzo. Ma è proprio nella definizione di “legittimo motivo” che si apre lo spazio per interpretazioni più articolate.
Le esigenze di sicurezza, la conformazione degli spazi e la tipologia di servizio offerto possono costituire ragioni valide per limitare l’accesso a determinate categorie di clienti. Non si tratta di discriminazione basata sull’età in quanto tale, ma di una specializzazione dell’offerta commerciale che risponde a legittime esigenze imprenditoriali e alle aspettative di una clientela adulta che cerca determinati ambienti e atmosfere. Del resto, esistono già numerosi locali espressamente dedicati alle famiglie con bambini, con spazi gioco e servizi specifici, a dimostrazione che il mercato tende naturalmente a differenziarsi per rispondere alle diverse esigenze dei consumatori.

Lungi dal rappresentare una forma di discriminazione, la diffusione dei locali “childfree” potrebbe costituire un’opportunità di riflessione sull’educazione contemporanea e un incentivo per i genitori a riprendere in mano il proprio ruolo formativo. La consapevolezza che esistono luoghi non adatti ai bambini, non per cattiva volontà ma per caratteristiche intrinseche dell’ambiente, dovrebbe spingere le famiglie a operare scelte più consapevoli e a trasmettere ai propri figli l’importanza dell’adeguare il proprio comportamento al contesto. La capacità di identificare gli spazi adatti e quelli inadatti alle diverse età fa parte di quell’educazione al rispetto che sembra essere diventata sempre più rara.
Piuttosto che contestare la legittimità dei locali “adults only”, sarebbe più costruttivo interrogarsi sulle ragioni che hanno portato alla loro diffusione: il crescente numero di bambini incapaci di comportarsi adeguatamente in pubblico e di genitori riluttanti o impossibilitati a imporre regole chiare. Non è colpa dei ristoratori se devono ricorrere a misure drastiche per tutelare l’esperienza della propria clientela, ma è sintomo di una società che ha rinunciato a trasmettere valori fondamentali come il rispetto degli altri e degli spazi condivisi.
La soluzione ottimale, già adottata da alcuni locali più lungimiranti, potrebbe essere quella di prevedere sale separate: una per le famiglie con bambini e una riservata alla clientela adulta. In questo modo si risponderebbe alle esigenze di entrambe le categorie, evitando inutili contrapposizioni e garantendo a tutti un’esperienza soddisfacente. Nel frattempo, però, è legittimo che gli esercenti possano scegliere di specializzarsi in un determinato tipo di clientela, così come è giusto che i consumatori abbiano la libertà di optare per locali che garantiscano l’atmosfera più consona alle proprie aspettative.
Il fenomeno dei locali “childfree”, più che una moda passeggera, rappresenta l’adattamento del mercato a un cambiamento sociale profondo: la progressiva perdita di autorità dei genitori e la conseguente mancanza di educazione dei più giovani. In attesa che si recuperino quei valori tradizionali che garantivano una pacifica convivenza tra generazioni diverse negli spazi pubblici, la separazione degli ambienti appare come una soluzione pragmatica a un problema sempre più evidente. Resta la speranza che questa tendenza possa innescare una riflessione più ampia sulla necessità di ritornare a un’educazione più rigorosa e rispettosa, capace di formare cittadini consapevoli del proprio ruolo nella società.