Per i nati dopo il 1990 un futuro senza pensione, l’insostenibilità del sistema previdenziale italiano

L’analisi dei dati previdenziali rivela l’insostenibilità strutturale del sistema pensionistico italiano che penalizza gravemente i nati dopo il 1990, destinati a lavorare oltre i 70 anni per pensioni inadeguate.

L’Italia si trova di fronte a una delle più gravi crisi previdenziali della sua storia contemporanea, con un sistema pensionistico che presenta tutti i sintomi di un’insostenibilità strutturale destinata a penalizzare gravemente le generazioni più giovani. I dati emersi dalle analisi più recenti delineano uno scenario drammatico per chi è nato dopo il 1990, chiamato a sostenere un sistema che difficilmente potrà garantire loro un futuro pensionistico dignitoso.

La spesa pensionistica italiana ha raggiunto dimensioni allarmanti, toccando nel 2025 i 289,4 miliardi di euro, pari al 15,3% del Prodotto Interno Lordo. Questo dato colloca l’Italia al vertice della classifica OCSE per spesa previdenziale, con una percentuale destinata a salire al 16,2% del PIL nel 2025, la più alta tra tutti i paesi dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico. Tale sproporzione rispetto alla media europea del 10% circa evidenzia una gestione delle risorse pubbliche che ha privilegiato la generosità immediata a scapito della sostenibilità di lungo periodo. Il sistema a ripartizione italiano, che si basa sul principio per cui le pensioni erogate vengono finanziate principalmente dai contributi versati dai lavoratori attualmente attivi, mostra tutti i limiti di una struttura che non tiene conto delle dinamiche demografiche in atto.

L’INPS registra attualmente oltre 17,9 milioni di pensioni vigenti, un numero impressionante che fotografa il peso economico e sociale della previdenza pubblica nel nostro Paese. Il bilancio dell’Istituto presenta una differenza negativa di 61 miliardi di euro tra entrate e uscite, un disavanzo che deve essere costantemente ripianato attraverso trasferimenti dallo Stato a carico della fiscalità generale. Questa situazione dimostra come il sistema sia già oggi insostenibile dal punto di vista finanziario, richiedendo un continuo sostegno esterno per mantenere gli impegni previdenziali assunti.

La crisi demografica italiana rappresenta il fattore scatenante dell’insostenibilità del sistema previdenziale, con l’invecchiamento della popolazione che determina un aumento delle prestazioni pensionistiche non controbilanciato da un incremento della contribuzione. Le proiezioni demografiche indicano che entro il 2050 gli over 65 potrebbero rappresentare oltre un terzo della popolazione italiana, creando un rapporto insostenibile tra lavoratori attivi e pensionati. Nel 2050, in media ogni due lavoratori dovranno sostenere un pensionato, mentre l’indice di dipendenza degli anziani raggiungerà il 65,5% nel 2070, ben al di sopra della media europea del 59,1%.

Il tasso di natalità italiano ha subito un declino drammatico, scendendo da 18 nati per 1000 abitanti nel 1964 a soli 6,4 nel 2023, con 379.000 bambini nati nel 2023, il 34,2% in meno rispetto al 2008. Parallelamente, l’aspettativa di vita è aumentata, arrivando a 81 anni per gli uomini e 85 per le donne. Questa combinazione di fattori demografici crea una situazione in cui sempre meno persone in età lavorativa devono sostenere un numero crescente di pensionati per periodi sempre più lunghi, rendendo matematicamente impossibile il mantenimento dell’equilibrio finanziario del sistema.

Il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo, introdotto con la riforma del 1996, doveva rappresentare la soluzione ai problemi di sostenibilità del sistema pensionistico italiano. Tuttavia, questa riforma si è rivelata inadeguata a fronteggiare le sfide strutturali del mercato del lavoro contemporaneo, penalizzando in particolare i giovani nati dopo il 1990. Il sistema contributivo lega direttamente l’importo della pensione ai contributi effettivamente versati durante la carriera lavorativa, ma non tiene conto della precarietà diffusa che caratterizza l’occupazione giovanile. Lavori a tempo determinato, contratti atipici, partite IVA sottopagate e carriere discontinue sono diventati la norma per le nuove generazioni, rendendo impossibile l’accumulo di contributi sufficienti a garantire una pensione dignitosa.

L’età pensionabile è destinata a subire un aumento costante per chi è nato dopo il 1990, passando dai 67 anni attuali a 68 anni e un mese nel 2039, 69 anni e un mese nel 2051, fino a raggiungere i 70 anni nel 2067. L’OCSE ha evidenziato come l’età effettiva di pensionamento in Italia potrebbe superare i 70 anni, con una previsione di uscita dal lavoro a 71 anni, il dato più alto d’Europa dopo la Danimarca. Questo significa che chi oggi ha meno di 35 anni potrebbe trovarsi a lavorare fino ai 70 anni o oltre, ricevendo comunque una pensione significativamente inferiore rispetto alle generazioni precedenti.

Le proposte avanzate dal governo per affrontare la crisi previdenziale rivelano un approccio statalista che, anziché risolvere i problemi strutturali, rischia di aggravarli ulteriormente. La proposta del sottosegretario al Lavoro Claudio Durigon di utilizzare il “tesoretto” del TFR per la previdenza pubblica rappresenta un esempio emblematico di come l’interventismo statale tenda a concentrare sempre più risorse nel sistema pubblico, privando i lavoratori della possibilità di diversificare i propri investimenti previdenziali. L’idea di lasciare il TFR all’interno del sistema previdenziale pubblico, evitando il “dirottamento” verso i fondi integrativi, dimostra una logica dirigista che considera le risorse dei lavoratori come proprietà dello Stato da gestire secondo logiche politiche piuttosto che economiche.

Queste misure non solo non risolvono il problema della sostenibilità del sistema, ma trasferiscono ulteriormente il rischio sui lavoratori, che si vedono privati della possibilità di controllare direttamente i propri risparmi previdenziali. Il mantenimento forzoso del TFR nelle casse dell’INPS rappresenta una forma di espropriazione mascherata che limita la libertà di scelta individuale e concentra ulteriormente il rischio sistemico in un ente già in grave difficoltà finanziaria. L’approccio dirigista del governo dimostra l’incapacità di comprendere che il problema non è la mancanza di risorse da convogliare nel sistema pubblico, ma l’insostenibilità strutturale del modello a ripartizione.

L’esperienza internazionale offre esempi virtuosi di come sia possibile riformare radicalmente un sistema previdenziale in crisi attraverso l’adozione di modelli basati sulla capitalizzazione e sulla libertà di scelta. Il caso del Cile, che all’inizio degli anni Ottanta è riuscito a trasformare in senso liberale il proprio sistema pensionistico, dimostra come sia possibile traghettare un’economia da una previdenza pubblica a una privata e concorrenziale. Il modello cileno ha permesso a milioni di “lavoratori-capitalisti” di guardare con ottimismo al futuro, perché la loro pretesa di disporre di un vitalizio poggia su risorse effettivamente accantonate e investite.

La riforma cilena ha prodotto effetti positivi non solo sul piano previdenziale, ma anche su quello economico generale, abbassando notevolmente il costo del lavoro e consentendo all’economia di crescere a ritmi impetuosi. Questo esempio dimostra come la libertà di scelta produca risultati superiori rispetto alla statizzazione del sistema previdenziale, che genera inevitabilmente irresponsabilità, sprechi e parassitismi. L’adozione di un modello a capitalizzazione consentirebbe ai giovani italiani di investire nel proprio futuro attraverso strumenti finanziari diversificati, riducendo il rischio sistemico e garantendo rendimenti superiori rispetto al sistema pubblico a ripartizione.

L’insostenibilità del sistema pensionistico italiano non è solo una questione tecnica o finanziaria, ma rappresenta una grave ingiustizia intergenerazionale che sta sacrificando il futuro dei giovani per mantenere privilegi acquisiti. I nati dopo il 1990 si trovano nella condizione paradossale di dover versare contributi sempre più elevati per sostenere pensioni sempre più generose di chi li ha preceduti, sapendo che difficilmente potranno beneficiare dello stesso trattamento. Questa situazione crea una “tenaglia perversa” che schiaccia le nuove generazioni tra stagnazione dei salari e precarietà lavorativa da un lato, e l’allontanamento progressivo del traguardo pensionistico dall’altro.

Il rischio concreto è quello di una crisi sociale latente ma profonda, che coinvolge milioni di giovani chiamati a costruirsi una carriera tra mille ostacoli, senza alcuna certezza per il domani. L’attuale sistema condanna un’intera generazione a rimanere “precari, sfruttati e poveri sia al lavoro che quando riusciranno ad andare in pensione”, creando le premesse per tensioni sociali che potrebbero avere conseguenze imprevedibili sulla stabilità del Paese. Solo una riforma coraggiosa che restituisca ai lavoratori la proprietà e il controllo dei propri risparmi previdenziali può spezzare questo circolo vizioso e garantire un futuro dignitoso alle nuove generazioni.