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Gaza sì, lo Yemen no: il dramma delle guerre invisibili e l’indignazione selettiva

Mentre si manifesta per Gaza, le guerre silenziose in Africa e Asia mietono milioni di vittime nell’indifferenza generale. Perché nessuno scende in piazza per loro? Perché non fanno tendenza.
Credit © Anadolu Agency

Le immagini delle manifestazioni per Gaza riempiono le piazze italiane, animano le bacheche social, colorano le bio con bandiere palestinesi e cuori spezzati. La recente Global Sumud Flotilla ne è l’ennesima rappresentazione plastica: un corteo marittimo che vuole portare solidarietà e “resistenza pacifica” alla popolazione di Gaza. Un gesto che, nella sua intenzione, può apparire nobile. Ma a ben guardare, è anche profondamente ipocrita. O quanto meno, clamorosamente selettivo.

Da mesi, se non anni, Gaza è diventata la causa perfetta. Ha tutto quello che serve per diventare un simbolo: una storia drammatica, una narrazione binaria di oppressi contro oppressori, una scenografia riconoscibile, slogan semplici e potenti. E, soprattutto, una cassa di risonanza mediatica costante. Il mondo ne parla, e allora è più facile schierarsi. Più comodo. Più social. E infatti lo si fa: si scende in piazza, ci si filma, si scrive indignati su X e Instagram, si organizza una flotilla, si indossa una kefiah.

Ma dove sono le flotillas per lo Yemen? Perché nessuno blocca i porti per denunciare i milioni di sfollati in Sudan? Perché nessuno indossa la maglietta con la mappa del Tigray? Dove sono i cortei per i cristiani massacrati in Nigeria dalle milizie jihadiste, cinquecentomila in un solo anno secondo alcune stime? E i bambini morti ogni dieci minuti in Yemen – ogni dieci minuti – non meritano un hashtag, un sit-in, una barca carica di solidarietà?

La risposta, per quanto scomoda, è semplice. Queste guerre non fanno notizia. Non hanno il glamour politico della causa palestinese, non si prestano facilmente alla semplificazione ideologica, non entrano bene nei frame narrativi di parte dell’occidente. Non mobilitano influencer né registi. Non scaldano i cuori, non attirano sponsor. Sono guerre complicate, lontane, spesso senza un “cattivo” facilmente identificabile. Parlare di esse richiederebbe tempo, studio, fatica. E un’onestà intellettuale che non tutti sono disposti a mettere in gioco.

L’ipocrisia sta tutta qui: non nel provare empatia per Gaza – quella è più che legittima – ma nel riservarla solo a Gaza, come se il dolore umano fosse gerarchico, come se le vittime di alcune guerre valessero più di altre. È una forma di razzismo morale che si traveste da impegno politico. Una selezione dell’indignazione che ci assolve, ci fa sentire buoni, impegnati, “dalla parte giusta”. Ma che, di fatto, contribuisce all’oblio degli altri conflitti. Di quelli meno fotogenici, meno digeribili, meno “trendy”.

La Global Sumud Flotilla galleggia sul mare, ma affonda nel mare dell’ipocrisia. È un gesto simbolico che non cambia nulla sul campo e che, anzi, distoglie l’attenzione da realtà ben più gravi in termini di numeri e violenze. Dovremmo domandarci perché siamo pronti a sollevare il mondo per una causa, ma restiamo in silenzio davanti a genocidi reali e quotidiani. La risposta è scomoda, ma necessaria: perché indignarsi per Gaza fa tendenza, è un’etichetta di appartenenza, una bandiera da esibire. Le altre guerre, invece, sono troppo scomode per chi vive nel comfort di una coscienza selettiva.

Se davvero ci tenessimo alla giustizia, all’umanità, alla pace, non esisterebbero guerre di serie A e guerre di serie B. Ogni bambino che muore dovrebbe gridare allo stesso modo. E invece, l’eco del suo grido dipende da quanto è utile, spendibile, raccontabile.Per restare sempre aggiornato scarica GRATIS la nostra App!