La scoperta della cosiddetta “valle dei dinosauri” nel cuore del Parco Nazionale dello Stelvio rappresenta uno dei ritrovamenti paleontologici più significativi degli ultimi decenni in Italia. Migliaia di impronte fossili risalenti a circa 210 milioni di anni fa sono state individuate nella Valle di Fraele, in un’area remota e impervia delle Alpi valtellinesi, tra Bormio e Livigno. Il paleontologo Filippo Bertozzo, che collabora presso il Royal Belgian Institute of Natural Sciences di Bruxelles, ha spiegato perché questa scoperta riveste un’importanza scientifica eccezionale e quali creature preistoriche hanno lasciato queste tracce indelebili nella roccia.
Il ritrovamento è avvenuto in modo fortuito il 14 settembre 2025, quando il fotografo naturalista Elio Della Ferrera, impegnato a documentare cervi e gipeti nella Valle di Fraele, ha notato con il binocolo un versante roccioso caratterizzato da numerose depressioni che percorrevano gli strati quasi verticali. Resosi conto della peculiarità di quelle formazioni, alcune delle quali raggiungevano i 40 centimetri di diametro, Della Ferrera ha immediatamente contattato il paleontologo Cristiano Dal Sasso del Museo di Storia Naturale di Milano e la Soprintendenza competente. Le prime immagini inviate via cellulare hanno subito rivelato la natura straordinaria della scoperta: si trattava di impronte di dinosauri conservate in uno stato eccezionale, con dettagli anatomici come dita e artigli ancora visibili dopo oltre 200 milioni di anni.
Secondo Bertozzo, la scoperta italiana si colloca su uno scalino più alto rispetto ad altri recenti ritrovamenti di impronte fossili, come quello boliviano che ha portato alla luce 16.600 tracce. La differenza fondamentale risiede nella datazione geologica: mentre le impronte boliviane risalgono al Cretaceo, un periodo relativamente ben documentato dal punto di vista paleontologico, quelle dello Stelvio appartengono al Triassico superiore, dunque a un’epoca molto più vicina alle origini stesse dei dinosauri. Questo aspetto conferisce al sito valtellinese un valore scientifico inestimabile, poiché permette di comprendere il comportamento e la diversità dei primi dinosauri, di cui si possiedono relativamente poche informazioni fossili.
Le impronte scoperte nella Valle di Fraele sono state attribuite ai cosiddetti prosauropodi, termine paleontologico oggi sostituito dalla denominazione più corretta di sauropodomorfi basali. Si trattava di dinosauri erbivori caratterizzati da un lungo collo, una testa relativamente piccola e una corporatura robusta. Questi animali possedevano artigli appuntiti sia sulle mani che sui piedi, probabilmente utilizzati per la difesa dai predatori o per la raccolta del cibo vegetale. Le dimensioni variavano considerevolmente, con esemplari che potevano raggiungere dai due ai dieci metri di lunghezza e un peso fino a quattro tonnellate negli individui più grandi. I prosauropodi rappresentano i precursori diretti dei giganteschi sauropodi del Giurassico, animali ben noti al grande pubblico come il brachiosauro, il brontosauro e il diplodoco.
Bertozzo ha spiegato che risulta estremamente difficile identificare con precisione la specie che ha lasciato le impronte, a meno che non si verifichi l’evento rarissimo di trovare l’animale morto insieme alle sue tracce. Tuttavia, considerata la vicinanza geografica e geologica, è molto probabile che si tratti di animali evolutivamente simili ai plateosauri scoperti nella cittadina svizzera di Frick, dove è stata rinvenuta una quantità incredibile di questi dinosauri, anch’essi apparentemente morti in gruppo. Il Plateosaurus rappresentava uno dei prosauropodi più evoluti del Triassico superiore, un erbivoro bipede dotato di una struttura corporea tipica: cranio piccolo posto in cima a un collo lungo e flessibile composto da dieci vertebre cervicali, corpo tozzo sostenuto da massicce zampe posteriori e arti anteriori più corti ma ugualmente muscolosi, terminanti con tre dita armate di grossi artigli.
La presenza nella Valle di Fraele di una così vasta concentrazione di impronte rivela aspetti affascinanti del comportamento sociale di questi dinosauri. Le tracce si presentano disposte in file parallele, seguendo traiettorie regolari che formano piste lunghe centinaia di metri. Questa disposizione ordinata costituisce una prova evidente di branchi in movimento sincronizzato, indicando forme di comportamento sociale già evolute nel Triassico superiore. Dal Sasso ha sottolineato come in alcuni punti la disposizione circolare delle orme suggerisca comportamenti più complessi, come gruppi di animali radunati in cerchio, forse per difendere gli individui più giovani o vulnerabili dai predatori. Si tratta di testimonianze dirette di strategie difensive collettive che gettano nuova luce sulle dinamiche sociali dei primi grandi erbivori della storia.
La conservazione eccezionale di queste impronte è il risultato di una particolare combinazione di fattori geologici e ambientali. Nel Triassico superiore, circa 210 milioni di anni fa, l’area dove oggi si ergono le maestose cime alpine era completamente diversa: non esistevano montagne, ma ampie pianure costiere caratterizzate da piane di marea che si perdevano all’orizzonte per centinaia di chilometri. Questi ambienti erano lambiti dalle calde acque dell’Oceano Tetide, in un clima tropicale simile a quello delle attuali zone equatoriali. I dinosauri camminavano su questi fanghi calcarei, imprimendo le loro orme che venivano rapidamente ricoperte e protette da ulteriori sedimenti, permettendone la pietrificazione e la conservazione attraverso le ere geologiche.
La posizione attuale delle impronte, disposte su pareti rocciose quasi verticali, non corrisponde alla situazione originaria ma è conseguenza delle enormi deformazioni tettoniche che hanno portato alla formazione della catena alpina. Le rocce che oggi costituiscono le Cime di Plator e Cima Doscopa si formarono tra 227 e 205 milioni di anni fa come sedimenti calcarei in piattaforme carbonatiche di mare basso. Con lo scontro tra la placca euroasiatica e quella africana, avvenuto decine di milioni di anni dopo il passaggio dei dinosauri, la piana orizzontale che era la spiaggia dell’epoca è stata sollevata, inclinata e trasformata nelle attuali superfici verticali. L’erosione dei versanti montani ha poi riportato alla luce queste antiche camminate, esponendole nuovamente agli agenti atmosferici dopo milioni di anni di sepoltura.
Il geologo Fabrizio Berra del Dipartimento di Scienze della Terra Ardito Desio dell’Università degli Studi di Milano ha puntualizzato che sulle pendici delle Cime di Plator affacciate verso i Laghi di Cancano affiorano rocce sedimentarie dolomitiche del Triassico superiore, note con il nome di Dolomia Principale o Dolomia del Cristallo nel settore dell’Alta Valtellina. La plasticità di quei finissimi fanghi calcarei, ora divenuti roccia, ha talora permesso di conservare dettagli anatomici delle zampe davvero notevoli, come le impressioni delle dita e persino degli artigli, offrendo agli studiosi una finestra privilegiata sulla morfologia e la locomozione di questi antichi animali.
Le superfici di strato caratterizzate dalle tracce di dinosauri, definite tecnicamente “dinoturbate”, affiorano su almeno sette crinali diversi, con decine di strati sovrapposti che emergono dai detriti di frana fino alle creste montuose lungo la Valle di Fraele sulla sponda meridionale dei Laghi di Cancano. In alcuni punti le orme risultano sovrapposte e parzialmente confuse, segno del passaggio ripetuto di numerosi individui nel corso di migliaia o forse milioni di anni. Questa stratificazione temporale delle tracce indica che l’area era frequentata regolarmente dai dinosauri, probabilmente in cerca di cibo vegetale lungo le rive dell’Oceano Tetide, e rappresenta il primo rinvenimento di questo tipo mai documentato in Lombardia.
Cristiano Dal Sasso ha definito la scoperta una vera e propria valle dei dinosauri che si estende per chilometri, risultando il sito più grande delle Alpi e uno dei più ricchi al mondo per il periodo del Triassico. Si tratta probabilmente della più importante scoperta paleontologica sui dinosauri italiani dopo quella di Ciro, lo Scipionyx samniticus rinvenuto a Pietraroja in provincia di Benevento nel 1980 e riconosciuto dalla comunità scientifica internazionale nel 1998 come uno dei fossili più importanti nella storia della paleontologia. La valle era letteralmente popolata da dinosauri e l’enorme valore scientifico del ritrovamento richiederà decenni di studi, anche a causa delle difficoltà oggettive di accesso al sito.
Bertozzo ha illustrato come le moderne tecnologie permetteranno di superare le problematiche legate all’inaccessibilità del sito. La paleoicnologia, la scienza che studia le impronte fossili, ha conosciuto negli ultimi anni una vera e propria evoluzione tecnologica grazie all’utilizzo dei droni. Questi strumenti sono diventati i nuovi migliori amici dei paleontologi specializzati nelle tracce fossili, poiché permettono di realizzare modelli tridimensionali attraverso fotografie e video acquisiti da diverse angolazioni. Nel caso dello Stelvio, sarà possibile portare due o tre persone con droni in una zona dove è possibile ricevere il segnale e scattare una serie completa di fotografie e video di tutta la parete rocciosa. Successivamente, queste impronte potranno essere studiate con la comodità di un computer in ufficio, e addirittura stampate in 3D per essere analizzate in maniera più approfondita su repliche fisiche, evitando così la necessità di cavi, attrezzature alpinistiche specializzate e interventi fisici che potrebbero danneggiare il patrimonio fossile.
Le prime indagini preliminari sono state condotte dal Museo di Storia Naturale di Milano in collaborazione con il MUSE di Trento e il Dipartimento di Scienze della Terra Ardito Desio dell’Università degli Studi di Milano. Questi studi iniziali hanno confermato che la maggior parte delle tracce rinvenute sono attribuibili a dinosauri erbivori prosauropodi del Triassico superiore, considerati gli antenati dei grandi erbivori del Giurassico. L’alta densità delle tracce, che in alcuni punti raggiunge le quattro-sei orme per metro quadrato, non è comune nei siti fossiliferi e dimostra che i dinosauri si muovevano in branchi composti da molti individui. L’elevata varietà dimensionale delle impronte indica inoltre una grande diversità di taglia, suggerendo la presenza contemporanea di individui adulti e giovani.
Quanto ai tempi necessari per la pubblicazione di studi scientifici approfonditi, Bertozzo ha stimato che potrebbero trascorrere dai due ai tre anni prima di vedere il primo articolo scientifico dettagliato. La tempistica dipenderà dalla strategia di pubblicazione adottata dalla Regione Lombardia e dal Museo di Milano: potrebbe trattarsi di un grande studio complessivo di tutte le impronte oppure di una serie di pubblicazioni successive, iniziando con un annuncio scientifico preliminare per poi procedere con monografie più approfondite, seguendo il modello utilizzato per lo Scipionyx, la cui prima pubblicazione fu un annuncio mentre la monografia completa arrivò molti anni più tardi.
La scoperta dello Stelvio solleva anche interrogativi più ampi sulla paleontologia italiana. Bertozzo ha spiegato perché in Italia sia relativamente complicato trovare fossili di dinosauri, nonostante il record fossile delle impronte sia molto ampio con ritrovamenti ad Altamura, ai Lavini di Marco a Rovereto, in varie zone della Puglia e ora nella Valle di Fraele. Un ambiente geologico capace di preservare impronte spesso non è in grado di conservare ossa, e viceversa. Per quanto riguarda i resti scheletrici, bisogna considerare le caratteristiche geologiche e stratigrafiche: è necessario trovare lo strato sedimentario di una data zona, di quel tempo e di quell’epoca, che non sia marino ma continentale, poiché i dinosauri vivevano sulla terraferma.
Un tempo si riteneva che l’Italia fosse completamente sommersa durante tutto il periodo di esistenza dei dinosauri, ma oggi sappiamo che nel corso dei 160 milioni di anni in cui vissero questi animali esistevano varie isole e zone che affioravano e sprofondavano ciclicamente. I dinosauri hanno quindi avuto degli intervalli temporali e geografici specifici per apparire sul territorio italiano. A ciò si aggiunge il fatto che l’Italia, dal punto di vista geografico, è una terra molto limitata rispetto alle grandi pianure americane o alle vaste distese delle badlands, quindi i punti dove trovare strati adeguati sono molto ridotti. Tuttavia, negli strati limitati disponibili, l’Italia custodisce reperti di qualità eccezionale, come i dinosauri dal becco d’anatra di Trieste presso il Villaggio del Pescatore, Pietraroja con Ciro caratterizzato da una conservazione straordinaria dei tessuti molli, e il Saltriovenator nella zona lombarda, un esemplare importantissimo del Giurassico inferiore.
Il sito della Valle di Fraele costituisce dunque un patrimonio scientifico di enorme valore, capace di fornire nuove informazioni sull’evoluzione dei dinosauri, sui loro comportamenti sociali, sulle dinamiche dei branchi e sulle strategie di sopravvivenza nel Triassico superiore. L’orientamento ordinato delle tracce, la presenza di piste parallele che indicano movimenti coordinati e le disposizioni circolari che suggeriscono comportamenti difensivi rappresentano testimonianze dirette di una complessità sociale già sviluppata nei primi grandi erbivori della storia evolutiva. La possibilità di studiare migliaia di impronte distribuite su un’area di diversi chilometri quadrati, attraverso tecnologie di telerilevamento e modellazione tridimensionale, aprirà prospettive inedite per la ricerca paleontologica sulle Alpi e contribuirà in modo significativo alla comprensione di un’epoca cruciale nella storia della vita sulla Terra, quando i dinosauri iniziavano la loro straordinaria espansione che li avrebbe portati a dominare gli ecosistemi terrestri per oltre 160 milioni di anni.
Il direttore dell’area lombarda del Parco Nazionale dello Stelvio, Franco Claretti, ha sottolineato come questa scoperta eccezionale si inserisca in un contesto già ricco di riscoperte storiche e archeologiche che da alcuni anni stanno permettendo di ridare vita al passato della Valle di Fraele, dal medioevo fino alla storia recente. L’aggiunta di questo elemento paleontologico rappresenta un nuovo tassello fondamentale per la conoscenza del territorio e per la sua valorizzazione scientifica e culturale. Nei prossimi anni, il compito delle istituzioni sarà quello di contribuire alla ricerca scientifica e soprattutto di inserire questo nuovo elemento di conoscenza nelle azioni di divulgazione e tutela della Valle di Fraele, garantendo al contempo la preservazione di un patrimonio fossile esposto all’azione degli agenti atmosferici e che ha resistito intatto per oltre 200 milioni di anni.
La scoperta si affianca ad altri importanti siti paleontologici alpini, come il celebre Monte San Giorgio al confine tra Italia e Svizzera, patrimonio UNESCO per i suoi fossili del Triassico medio. Insieme, questi giacimenti disegnano un’area allargata di importanza mondiale a cavallo della linea Insubrica per lo studio e la descrizione della vita nel periodo Triassico. L’eccezionale ritrovamento di tracce fossili nel Parco dello Stelvio colloca definitivamente le Alpi italiane tra i luoghi di riferimento internazionale per la paleontologia del Mesozoico, offrendo alla comunità scientifica mondiale un laboratorio naturale a cielo aperto per indagare i misteri di un passato remotissimo, quando le attuali vette alpine erano pianure tropicali battute da branchi di giganteschi dinosauri erbivori. Per restare sempre aggiornato scarica GRATIS la nostra App!
