Il gigante delle Alpi, monarca indiscusso della geografia europea e punto di riferimento immutabile per generazioni di studenti, alpinisti e scienziati, sta cambiando volto, e lo sta facendo con una rapidità che inquieta la comunità scientifica internazionale. La cifra iconica di 4.810 metri, imparata a memoria sui banchi di scuola come un dogma inattaccabile, appartiene ormai agli archivi storici e non descrive più la realtà fisica del presente. Secondo le più recenti e sofisticate rilevazioni, la vetta del Monte Bianco si attesta oggi a una quota di 4.807,3 metri sul livello del mare, segnando un ridimensionamento che va ben oltre la semplice correzione cartografica. Questo dato, emerso da una complessa missione scientifica italo-francese, non è frutto di un assestamento geologico della struttura rocciosa, bensì la conseguenza diretta e tangibile della sofferenza della calotta glaciale sommitale, che si sta riducendo anche a quote dove, fino a pochi decenni fa, il ghiaccio era considerato eterno e immutabile.
A lanciare l’allarme, con una precisione documentale che lascia poco spazio alle interpretazioni ottimistiche, è la Fondazione Montagna Sicura di Courmayeur, istituzione che da anni monitora lo stato di salute dell’arco alpino occidentale. In collaborazione con il prestigioso Laboratoire Edytem dell’Université de Savoie Mont-Blanc, i ricercatori hanno condotto una campagna di misurazione senza precedenti per accuratezza e strumentazione impiegata, proprio nel contesto dell’Anno Internazionale della Conservazione dei Ghiacciai. L’obiettivo primario non era soltanto aggiornare l’altitudine ufficiale della vetta, ma stabilire un cosiddetto «stato zero»: un punto di partenza scientificamente ineccepibile che permetta, negli anni a venire, di tracciare con esattezza millimetrica l’evoluzione della massa glaciale che ricopre la sommità del tetto d’Europa.
Le operazioni di rilievo si sono svolte avvalendosi delle più avanzate tecnologie disponibili nel campo della glaciologia e della topografia d’alta quota. Gli esperti hanno impiegato una combinazione integrata di droni ad alta resistenza, capaci di operare nelle condizioni atmosferiche rarefatte e ventose tipiche dei 4.800 metri, sistemi di telerilevamento LiDAR (Light Detection and Ranging) e georadar. Questa strumentazione ha permesso non solo di scansionare la superficie esterna del manto nevoso e glaciale, ma di penetrare virtualmente nelle profondità della calotta, svelando la morfologia della roccia sottostante. I dati raccolti hanno rivelato che il substrato roccioso vero e proprio, la «spina dorsale» geologica della montagna, culmina a una quota di circa 4.786 metri. Tutto ciò che si eleva al di sopra di questa quota, per uno spessore stimato tra i 20 e i 25 metri variabili a seconda dei punti di accumulo, è costituito esclusivamente da ghiaccio e neve perenne. È proprio questo strato, un tempo ritenuto una corazza inscalfibile, a mostrare oggi i segni più evidenti di fragilità.
Fabrizio Troilo, coordinatore dell’area ricerca della Fondazione Montagna Sicura, ha sottolineato come i risultati di questa campagna suggeriscano l’inizio di un trend strutturale di diminuzione. Sebbene la storia delle misurazioni del Monte Bianco ci abbia abituato a fluttuazioni periodiche — determinate dall’intensità delle precipitazioni nevose invernali e dall’azione erosiva o di accumulo dei venti in quota — la tendenza attuale appare diversa. In passato, si sono registrati picchi di altezza notevoli, come i 4.810,90 metri rilevati nel 2007, frutto di condizioni meteorologiche che favorivano l’accumulo. Tuttavia, le misurazioni degli ultimi anni disegnano una parabola discendente che preoccupa i climatologi: dai 4.807,81 metri del 2021 si è scesi ulteriormente agli attuali 4.807,3 metri, confermando che il bilancio di massa della calotta sommitale è in perdita. Questo fenomeno indica che la fusione estiva, o comunque la mancata conservazione della neve accumulata, sta prevalendo sui processi di accumulo, anche a quote estreme dove la temperatura dovrebbe garantire la stabilità criosferica.
Il significato di questi dati trascende la mera curiosità geografica e assume i contorni di un severo monito ambientale. Lo scioglimento del ghiaccio a quasi 5.000 metri di altitudine è la prova che l’isoterma dello zero termico si sta innalzando costantemente, esponendo anche le vette più alte delle Alpi a temperature positive per periodi sempre più prolungati durante la stagione estiva. Non si tratta più soltanto del ritiro delle lingue glaciali a valle, come accade in modo drammatico per la Mer de Glace o il Ghiacciaio del Miage, ma di una trasformazione che investe le zone di accumulo, ovvero i «serbatoi» che dovrebbero alimentare i ghiacciai sottostanti. Se la calotta sommitale perde volume, viene meno la riserva strategica di freddo e di acqua allo stato solido che regola l’equilibrio idrologico e climatico dell’intera regione alpina.
La ricercatrice Martina Lodigiani, esperta di telerilevamento per ambienti glaciali presso la Fondazione Montagna Sicura, ha precisato che il valore di 4.807,3 metri, pur essendo un dato puntuale influenzato dalle condizioni specifiche del momento del rilievo (avvenuto alla fine della stagione di accumulo primaverile), si inserisce in un quadro di monitoraggio a lungo termine essenziale per comprendere la velocità del cambiamento climatico. La creazione del «Punto Zero» permetterà infatti di sovrapporre i modelli digitali del terreno ottenuti negli anni futuri, evidenziando non solo le variazioni di altezza verticale, ma anche i cambiamenti volumetrici e morfologici della calotta. Si potrà capire, ad esempio, se il vento sta cambiando i suoi pattern di modellamento della cresta o se l’irraggiamento solare sta diventando il fattore dominante nell’erosione della superficie nevosa.
Le implicazioni di questa metamorfosi sono molteplici e toccano diversi ambiti, dalla sicurezza alpinistica alla gestione delle risorse idriche. Per gli alpinisti, la modifica della morfologia sommitale può comportare variazioni nelle vie di salita, con la comparsa di nuovi crepacci o l’esposizione di tratti rocciosi precedentemente coperti, rendendo le ascensioni potenzialmente più tecniche o pericolose. Dal punto di vista idrogeologico, la fusione accelerata dei ghiacciai d’alta quota rappresenta una minaccia per la disponibilità d’acqua nei mesi estivi per le vallate sottostanti, che dipendono dal rilascio graduale delle riserve nivali. Inoltre, lo scioglimento del permafrost — il terreno perennemente ghiacciato che funge da collante per le rocce ad alta quota — potrebbe compromettere la stabilità stessa di intere pareti montuose, aumentando il rischio di frane e crolli, come già osservato in altre aree del massiccio.
Il Monte Bianco, dunque, non è un monolite statico, ma un organismo geologico vivo e reattivo, che sta rispondendo con estrema sensibilità alle sollecitazioni antropiche sul clima globale. La riduzione della sua altezza è un segnale visibile, quasi un termometro naturale, che misura la febbre del pianeta. Mentre la politica internazionale discute di obiettivi di riduzione delle emissioni e di contenimento dell’aumento delle temperature globali entro 1,5 o 2 gradi, la montagna più alta d’Europa ci sta dicendo che il tempo stringe e che gli effetti del riscaldamento sono già qui, tangibili e misurabili, anche nei luoghi che credevamo inaccessibili e protetti dalla loro stessa grandezza. I 4.807,3 metri di oggi sono un numero che deve far riflettere: rappresentano la perdita di quasi tre metri di storia glaciale in poco tempo, una erosione silenziosa che sta ridisegnando la mappa fisica e simbolica del nostro continente. Per restare sempre aggiornato scarica GRATIS la nostra App!
