Nella chiesa di Capocastello a Mercogliano, in provincia di Avellino, il Natale 2025 porta con sé una rappresentazione della Natività destinata a far discutere. Don Vitaliano Della Sala, parroco noto per le sue posizioni no Global e per le sue provocazioni degli anni passati, ha deciso di allestire un presepe dove, al posto di Gesù Bambino, compare una statuina raffigurante una bambina. L’iniziativa ha immediatamente scatenato reazioni contrastanti, alimentando un dibattito che va ben oltre i confini della piccola comunità irpina e che solleva interrogativi profondi sul confine tra provocazione pastorale e rispetto della tradizione religiosa.
Sul presepe campeggia un cartello che recita “Gesù Bambin@”, con la chiocciola a sostituire la desinenza di genere. Accanto, una bandiera della pace. La spiegazione fornita dal parroco è articolata: secondo don Vitaliano, questa scelta vuole rappresentare le bambine “senza casa, senza terra, senza pace e senza domani della Palestina e di Gaza, dell’Ucraina e del Sud Sudan”. Ma la motivazione principale è un’altra, dichiarata esplicitamente: indicare “la strada che non discrimini più le donne che chiedono di poter essere preti”. Una posizione netta, che trasforma il presepe da rappresentazione sacra a manifesto programmatico per l’ordinazione sacerdotale femminile.
La scelta di don Vitaliano non è casuale né tantomeno improvvisata. Il sacerdote, nato a Mercogliano nel 1963, ha costruito negli anni un profilo pubblico caratterizzato dall’attivismo sociale e politico, dalla vicinanza al movimento no Global e da posizioni spesso in contrasto con le gerarchie ecclesiastiche. La sua storia è segnata da episodi di tensione con l’autorità diocesana: nel 2000 ricevette la prima monitio canonica, nel 2002 fu rimosso dall’ufficio di parroco a Sant’Angelo a Scala. Solo con l’arrivo del vescovo Francesco Marino la sua situazione canonica venne risolta, fino alla nomina nel 2018 a parroco di Mercogliano da parte del vescovo Arturo Aiello, che lo ha anche incaricato come vice direttore della Caritas diocesana.
Eppure, questa riabilitazione istituzionale non ha moderato la propensione alla provocazione. Già nel 2023 don Vitaliano aveva fatto discutere per un presepe con due Madonne al posto della tradizionale Sacra Famiglia, un’iniziativa che il senatore Maurizio Gasparri aveva definito “un atto di blasfemia”, portando poi il parroco a denunciare il parlamentare per diffamazione. L’anno successivo aveva trasformato i pastori nei personaggi dei Simpson. Quest’anno, la provocazione raggiunge un livello ulteriore: non si tratta più di aggiungere o modificare elementi del presepe, ma di alterare l’identità stessa del protagonista della Natività, Gesù Cristo.
La questione solleva problemi che vanno oltre la sensibilità religiosa individuale e toccano il cuore della dottrina cattolica e della tradizione millenaria della Chiesa. Il presepe, introdotto nella forma che conosciamo da San Francesco d’Assisi nel 1223 a Greccio, non è una semplice decorazione natalizia o un generico simbolo di pace e fratellanza. È una rappresentazione catechetica, una “catechesi visiva” che permette ai fedeli di contemplare il mistero dell’Incarnazione: Dio che si fa uomo in Gesù Cristo. Ogni elemento del presepe ha un profondo valore simbolico radicato nei Vangeli e nella Tradizione della Chiesa. Maria rappresenta la fede e l’umiltà dell’accoglienza di Dio; Giuseppe incarna la protezione, l’obbedienza silenziosa e la giustizia; il Bambino Gesù, posto al centro, è la luce del mondo, il Salvatore atteso.
Alterare questi elementi fondamentali non significa semplicemente “modernizzare” o “reinterpretare” la tradizione, come sostiene don Vitaliano paragonandosi a San Francesco. Significa invece svuotare il presepe del suo significato originario, trasformandolo da rappresentazione di un evento storico e teologico specifico – la nascita del Figlio di Dio fatto uomo – in un generico palcoscenico per messaggi sociali e politici, per quanto nobili possano essere le intenzioni dichiarate. Il fatto storico della nascita di Gesù a Betlemme, registrato nei Vangeli di Luca e Matteo, non è materia disponibile per reinterpretazioni arbitrarie. Cristo si è incarnato come uomo, nato da donna. Questa è la fede professata dalla Chiesa cattolica da duemila anni, custodita nella Scrittura e nella Tradizione.
La giustificazione fornita dal parroco – la necessità di aprire al sacerdozio femminile – merita un’analisi attenta. La questione dell’ordinazione delle donne nella Chiesa cattolica non è una semplice questione disciplinare o organizzativa che possa essere risolta con una decisione amministrativa. Si tratta di una questione dottrinale che ha ricevuto risposte magisteriali chiare e definitive. Papa Giovanni Paolo II, nella lettera apostolica Ordinatio Sacerdotalis del 1994, dichiarò che “la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa”. La motivazione non è discriminatoria, ma teologica: il sacerdote agisce “in persona Christi”, rappresenta Cristo che ha scelto dodici uomini come apostoli, e questo non per ragioni culturali o sociologiche del suo tempo, ma secondo il disegno di Dio.
Papa Francesco stesso, pur mostrando sensibilità verso il ruolo delle donne nella Chiesa e aprendo commissioni di studio sul diaconato femminile, ha ribadito nel 2023 che il sacerdozio femminile “è un problema teologico” e che “una donna non può accedere al sacerdozio perché non le spetta il principio petrino, bensì quello mariano, che è più importante”. Nel dicembre 2024, la Commissione Vaticana guidata dal cardinale Giuseppe Petrocchi ha escluso la possibilità di ammettere le donne al diaconato sacramentale, pur non formulando un giudizio definitivo come nel caso dell’ordinazione sacerdotale. Il cardinale Víctor Manuel Fernández, prefetto del Dicastero per la Dottrina della Fede, ha chiarito che papa Francesco ha espresso che “in questo momento la questione del diaconato femminile non è matura” e ha chiesto di non prendere in considerazione questa possibilità.
In questo contesto magisteriale chiaro, la scelta di don Vitaliano appare non come un contributo al dibattito teologico, ma come un atto di contestazione che utilizza il presepe (uno dei simboli più cari alla devozione popolare cattolica) come strumento di propaganda per posizioni personali in contrasto con l’insegnamento ufficiale della Chiesa. Il parroco afferma di voler “far discutere” e “lanciare un messaggio”, ma il metodo scelto rischia di creare soltanto confusione tra i fedeli, soprattutto i più semplici e i bambini, che nel presepe cercano la rappresentazione fedele della nascita di Gesù, non un manifesto ideologico.
Il silenzio della diocesi di Avellino sull’iniziativa è significativo e preoccupante. Mentre il vescovo Arturo Aiello ha pubblicato nei giorni scorsi un videomessaggio natalizio in cui parla di “luce, pace e speranza” e invita a contemplare il presepe come segno della presenza di Dio, non risulta alcun commento ufficiale sulla rappresentazione allestita da don Vitaliano. Questo silenzio potrebbe essere interpretato come imbarazzo, come volontà di evitare lo scontro, o come tacita tolleranza verso iniziative che oggettivamente non rispettano la tradizione liturgica e iconografica della Chiesa. Eppure, proprio in questi casi, la guida pastorale del vescovo diventa essenziale per chiarire ai fedeli cosa appartenga alla fede cattolica e cosa sia invece opinione personale di un sacerdote, per quanto rispettabile possa essere il suo impegno sociale.
Le reazioni all’iniziativa di don Vitaliano sono state prevalentemente critiche. Esponenti politici e commentatori hanno parlato di “follia woke”, di “oltraggio”, di rischio di “blasfemia”. Il quotidiano Il Giornale ha definito l’operazione “l’ultima follia woke nella mangiatoia”. La testata Nazione Futura ha scritto che “il presepe rappresenta da secoli un pezzo fondamentale di tradizione culturale e religiosa italiana” e che “rovinare questa tradizione inserendo personaggi poco opportuni vuol dire violare la storia”. Famiglia Cristiana, nel commentare il presepe del 2023 con le due Madonne, aveva titolato significativamente “Giù le mani da San Giuseppe”, sottolineando come la figura del padre putativo di Gesù incarni valori di giustizia, protezione e ascolto di cui c’è grande bisogno oggi, e come sostituirlo non sia “una provocazione, ma una mutilazione”.
Il presepe non è proprietà privata di un parroco che può manipolarlo a proprio piacimento per veicolare messaggi personali. È patrimonio della comunità ecclesiale, memoria vivente della fede tramandata di generazione in generazione, strumento di trasmissione della dottrina cristiana. Milioni di famiglie italiane, credenti e non credenti, ogni anno allestiscono il presepe nelle proprie case come momento di condivisione che unisce nonni, genitori e bambini. È una tradizione che parla di identità, di radici culturali, di continuità con il passato. Alterare arbitrariamente i suoi elementi fondamentali significa non solo mancare di rispetto alla sensibilità religiosa dei fedeli, ma anche impoverire un patrimonio culturale che appartiene all’intera comunità.
Don Vitaliano sostiene che “il presepe si deve adattare ai tempi” e che San Francesco stesso ha “reinterpretato il Vangelo”. Il paragone è inappropriato. San Francesco a Greccio non reinterpretò nulla: rappresentò fedelmente, con mezzi semplici e popolari, l’evento della Natività così come tramandato dalla Tradizione, rendendo visibile e accessibile ai semplici il mistero dell’Incarnazione. Non modificò l’identità dei protagonisti né trasformò la grotta in una tribuna per rivendicazioni sociali. Al contrario, volle mettere al centro l’umiltà, la povertà, la semplicità dell’evento salvifico. Quella di San Francesco fu fedeltà creativa alla Tradizione, non rottura provocatoria.
La preoccupazione per i bambini che soffrono nei conflitti, dalla Palestina all’Ucraina al Sud Sudan, è legittima e doverosa per ogni cristiano. Ma trasformare Gesù in una bambina non aiuta questi bambini né sensibilizza maggiormente i fedeli alla loro drammatica situazione. Al contrario, distoglie l’attenzione dal messaggio autentico del Natale: Dio che si fa bambino, vulnerabile, povero, solidale con tutti i sofferenti della terra proprio perché condivide fino in fondo la condizione umana. Il Bambino Gesù nel presepe è già, di per sé, rappresentazione di tutti i bambini che soffrono, senza bisogno di alterarne l’identità. È il “Dio con noi”, l’Emmanuele, che nasce in una stalla perché non c’era posto nell’alloggio, che diventa profugo in Egitto per sfuggire alla persecuzione di Erode, che conosce la povertà, l’esclusione, la violenza.
Quanto alla rivendicazione del sacerdozio femminile, esistono sedi appropriate per discuterne: convegni teologici, pubblicazioni accademiche, dialogo con le autorità ecclesiastiche. Il presepe non è una di queste sedi. Utilizzare un simbolo sacro per veicolare rivendicazioni che la Chiesa ha già esaminato e su cui ha espresso un giudizio magisteriale definitivo non è esercizio di libertà profetica, ma strumentalizzazione della pietà popolare. Se don Vitaliano ritiene che la posizione della Chiesa sul sacerdozio femminile sia sbagliata, ha il diritto e forse il dovere di esprimere le sue perplessità nelle sedi appropriate, con gli strumenti del dibattito teologico. Non ha invece il diritto, in quanto parroco, di confondere i fedeli a lui affidati presentando come legittima e anzi auspicabile una posizione che contrasta con l’insegnamento definitivo della Chiesa che egli stesso, al momento dell’ordinazione sacerdotale, si è impegnato a servire e trasmettere fedelmente.
Il rischio più grave di iniziative come quella di don Vitaliano è la creazione di confusione dottrinale tra i fedeli, specialmente i più semplici. Una mamma o un papà che porta i propri figli a vedere il presepe in chiesa si aspetta di trovare una rappresentazione fedele della Natività, che aiuti i bambini a comprendere e amare il mistero cristiano. Invece si trova di fronte a una rappresentazione alterata, con una spiegazione che introduce temi complessi e controversi del tutto estranei alla semplicità del messaggio natalizio. Come spiegare a un bambino che Gesù nella grotta è rappresentato come una bambina? Quale catechesi ne deriva? Quale comprensione del mistero dell’Incarnazione?
La provocazione continua di don Vitaliano – anno dopo anno un presepe diverso e controverso – tradisce una concezione della missione sacerdotale preoccupante. Il sacerdote non è un opinionista, un attivista sociale, un leader politico. È un ministro di Cristo e della Chiesa, chiamato a trasmettere fedelmente il deposito della fede, a celebrare i sacramenti secondo la disciplina ecclesiastica, a guidare i fedeli sulla via della santità. Può e deve, certo, impegnarsi per la giustizia sociale, difendere i poveri e gli oppressi, denunciare le ingiustizie. Ma deve farlo sempre in comunione con la Chiesa, rispettando l’insegnamento magisteriale, evitando di usare il suo ruolo pastorale per promuovere agende personali che contraddicono la dottrina cattolica.
Alcuni difensori di don Vitaliano sostengono che le sue provocazioni servono ad “aprire il dibattito”, a “svecchiare la Chiesa”, a “renderla più inclusiva”. Ma l’inclusività autentica non passa attraverso la negazione o la manipolazione della verità rivelata. La Chiesa cattolica è inclusiva non perché si adatta a ogni richiesta della cultura contemporanea, ma perché accoglie tutti nel cammino di conversione a Cristo, nel rispetto della sua Parola e della Tradizione apostolica. L’apertura alle istanze del mondo moderno non può significare relativizzazione della dottrina o mercificazione dei simboli sacri. Esiste una differenza fondamentale tra sviluppo omogeneo della dottrina, sotto la guida dello Spirito Santo e del Magistero, e rottura rivoluzionaria che pretende di riscrivere la fede secondo le mode culturali del momento.
Il Natale 2025 a Mercogliano rischia quindi di essere ricordato non per la gioia della celebrazione della nascita del Salvatore, ma per una polemica sterile generata da una provocazione inopportuna. I fedeli che si recheranno alla chiesa di Capocastello avranno il diritto di interrogarsi se quella rappresentazione nella grotta sia davvero il presepe della loro tradizione, se quella statuina rappresenti davvero il Gesù dei Vangeli, il Cristo della fede cattolica. E avranno il diritto di ricevere risposte chiare dalle autorità ecclesiastiche, in primo luogo dal vescovo di Avellino, chiamato a esercitare il suo munus di custode dell’ortodossia e della comunione ecclesiale nella diocesi.
In un tempo in cui la tradizione cristiana è già messa in discussione da molteplici fattori culturali e sociali, in cui molti hanno smarrito il senso autentico del Natale riducendolo a festa consumistica, la Chiesa ha il dovere di custodire e trasmettere fedelmente il suo patrimonio di fede e tradizione. Il presepe, in questa missione, è strumento prezioso di evangelizzazione e catechesi. Manipolarlo per fini estranei al suo significato originario non è atto di coraggio profetico, ma tradimento di una responsabilità pastorale. Don Vitaliano è certamente libero di avere le sue opinioni sul sacerdozio femminile, sulla Chiesa, sulla società. Ma quando allestisce un presepe in una chiesa parrocchiale, non agisce come privato cittadino: agisce come parroco, rappresentante della Chiesa cattolica, custode della fede per la comunità a lui affidata. E in questo ruolo, il rispetto della Tradizione e dell’insegnamento magisteriale non è optional, ma dovere fondamentale.
La polemica sul presepe di Mercogliano è destinata probabilmente a esaurirsi dopo le feste, come è accaduto per le provocazioni degli anni precedenti. Ma le questioni che solleva restano aperte e richiedono risposte chiare. Fino a che punto un sacerdote può usare il suo ruolo pastorale per promuovere posizioni personali in contrasto con l’insegnamento della Chiesa? Quale spazio esiste per il legittimo pluralismo teologico e quale invece è il confine della comunione ecclesiale? Come conciliare la libertà di pensiero con la fedeltà al Magistero? Sono domande serie, che meritano riflessione e dialogo nelle sedi appropriate. Quello che è certo è che il presepe di una chiesa parrocchiale non è la sede appropriata per questo dibattito. Il presepe deve restare quello che è sempre stato: memoria viva della notte santa in cui Dio si è fatto uomo per la nostra salvezza, testimonianza di una fede tramandata di generazione in generazione, segno di speranza per tutti gli uomini di buona volontà. Per restare sempre aggiornato scarica GRATIS la nostra App!
