Referendum, Landini: “Lasciare il sindacato? Non ci penso neanche lontanamente”

Il segretario Cgil respinge categoricamente le richieste di dimissioni dopo il mancato raggiungimento del quorum nei referendum su lavoro e cittadinanza, rivendicando i 14 milioni di voti ottenuti.

Il segretario generale della Cgil Maurizio Landini ha respinto categoricamente ogni ipotesi di dimissioni all’indomani del fallimento dei referendum su lavoro e cittadinanza, che non hanno raggiunto il quorum necessario fermandosi al 30,5% di affluenza. “Non ci penso neanche lontanamente, non credo sia oggetto di discussione”, ha dichiarato il leader sindacale durante la conferenza stampa nella sede del Comitato promotore, dove ha atteso i risultati insieme al resto della segreteria confederale.

La ferma presa di posizione di Landini arriva dopo settimane di pressioni politiche e attacchi diretti da parte del governo, culminati con la richiesta esplicita di dimissioni formulata dal sottosegretario al Lavoro Claudio Durigon, che aveva dichiarato di sperare che “martedì Landini faccia come Renzi, che si dimetta, visto che questo è il suo referendum, lo ha politicizzato al massimo”. Le parole del rappresentante leghista erano state pronunciate durante una conferenza dell’Ugl, evidenziando il tentativo delle forze di maggioranza di utilizzare l’eventuale fallimento referendario come strumento per destabilizzare la leadership della più grande organizzazione sindacale italiana.

Nonostante il mancato raggiungimento dell’obiettivo primario, Landini ha rivendicato l’importanza del risultato ottenuto, sottolineando come “sono oltre 14 milioni le persone che hanno votato nel nostro paese cui si aggiungeranno gli italiani all’estero: un numero importante, un numero di partenza”. Il segretario confederale ha ammesso con franchezza che “il nostro obiettivo era raggiungere il quorum, è chiaro che non lo abbiamo raggiunto. Oggi non è una giornata di vittoria”, ma ha immediatamente precisato che “i problemi che abbiamo posto con i referendum rimangono sul tavolo”, indicando la volontà di proseguire la battaglia politica e sindacale oltre il risultato referendario.

La posizione di Landini si inserisce in un contesto di crescente tensione con l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni, tensione che aveva raggiunto il culmine lo scorso novembre quando il leader sindacale aveva proclamato la necessità di una “vera rivolta sociale”, scatenando immediate reazioni da parte di Fratelli d’Italia. Le parole di Landini avevano provocato un fuoco di sbarramento da parte della maggioranza, con esponenti come Salvatore Sallemi che lo accusavano di parlare “come i cattivi maestri degli anni 70” e Tommaso Foti che paventava addirittura gli estremi per un reato.

Il fallimento del quorum rappresenta indubbiamente una battuta d’arresto per la strategia politica della Cgil, che aveva investito enormi risorse organizzative e comunicative nella campagna referendaria, puntando a modificare aspetti cruciali della legislazione sul lavoro ereditata dal Jobs Act renziano. I quattro quesiti sul lavoro e quello sulla cittadinanza erano stati concepiti come strumento per “cambiare delle leggi sbagliate che hanno reso il lavoro precario, ricattabile, insicuro”, secondo le parole dello stesso Landini, che aveva prospettato benefici concreti per milioni di lavoratori in caso di vittoria del sì.

La determinazione del segretario generale nel respingere ogni ipotesi di dimissioni appare rafforzata anche dalla consapevolezza delle difficoltà interne che l’organizzazione sta attraversando, come evidenziato dallo scandalo emerso attorno all’Inca Cgil, il patronato della confederazione. Le irregolarità documentate dal Ministero del Lavoro presso la sede di Astoria nel Queens hanno causato l’annullamento del 99,5% delle pratiche nel 2020 e del 99,8% nel 2021, privando il patronato dei finanziamenti ministeriali e alimentando richieste di chiarimento sulla leadership di Landini.

In questo scenario complesso, la scelta di Landini di non cedere alle pressioni esterne rappresenta un tentativo di preservare la continuità dell’azione sindacale in un momento particolarmente delicato per il movimento dei lavoratori. Il leader confederale ha più volte ribadito che l’obiettivo della Cgil rimane quello di “rimettere al centro il lavoro” e di contrastare le politiche di austerità che hanno caratterizzato gli ultimi anni, indipendentemente dal colore politico dei governi che si sono succeduti.

La strategia comunicativa adottata da Landini nelle ultime settimane aveva puntato sulla mobilitazione della base sindacale e sulla costruzione di un fronte trasversale capace di superare le tradizionali divisioni politiche. Durante la chiusura della campagna referendaria a Piazza Testaccio, il segretario generale aveva sottolineato l’importanza di “aver ricostruito una partecipazione trasversale tra laici e cattolici, e le associazioni nei territori”, presentando questo risultato come “un elemento che nessuno di noi può avere la responsabilità di disperdere”.

L’opposizione parlamentare ha fatto quadrato attorno alla figura di Landini, con il capogruppo Pd in commissione Lavoro Arturo Scotto che ha definito “inconcepibile che un sottosegretario al Lavoro chieda le dimissioni di Maurizio Landini, il segretario della più grande organizzazione dei lavoratori italiani”. Scotto ha inoltre evidenziato come non esista “in nessun Paese democratico al mondo che il governo attacchi l’autonomia del sindacato confederale”, paventando il rischio di un ritorno a logiche corporative.

La decisione di Landini di restare saldamente al timone della Cgil dopo il fallimento referendario indica la volontà di trasformare questa sconfitta tattica in un’opportunità per rilanciare l’azione sindacale su fronti diversi. Il leader confederale ha già annunciato che la battaglia continuerà “in ogni caso, anche dopo e fino a quando non abbiamo cambiato radicalmente questa situazione”, lasciando intendere che l’agenda rivendicativa della Cgil non subirà modifiche sostanziali nonostante l’esito negativo della consultazione referendaria.