L’Istituto nazionale di statistica ha certificato un aumento dei prezzi dei prodotti alimentari di proporzioni storiche tra ottobre 2021 e ottobre 2025, rilevando un incremento complessivo del 24,9% che supera di quasi otto punti percentuali la crescita dell’indice generale dei prezzi al consumo armonizzato, attestatosi al 17,3% nello stesso periodo. La forte dinamica inflazionistica ha colpito con particolare intensità il settore alimentare, trasformando il carrello della spesa in una voce di bilancio sempre più pesante per milioni di famiglie italiane.
Alla radice di questo fenomeno sta lo shock sui prezzi dell’energia che ha caratterizzato il biennio 2022-2023, quando il costo dell’elettricità è aumentato in alcuni momenti del 199% e quello del gas naturale del 90,7%, con punte che hanno visto l’indice energetico balzare del 135% su base tendenziale a ottobre 2022. L’impatto sui costi di produzione e distribuzione dei generi alimentari è stato devastante, colpendo il settore in modo diretto e indiretto. Nel primo caso, il rilevante peso degli input energetici nel processo produttivo agricolo ha fatto lievitare i costi operativi, mentre in modo indiretto l’incremento ha alimentato il prezzo di importanti prodotti intermedi come i fertilizzanti, i cui listini sono triplicati tra l’inizio del 2021 e la metà del 2022.
Il settore agricolo europeo ha registrato infatti un aumento dei prezzi dei fertilizzanti e degli ammendanti dell’87% tra il 2021 e il 2022, mentre i costi di energia e lubrificanti sono schizzati del 59% nello stesso periodo. Con il gas naturale che rappresenta il 90% delle spese di produzione di composti come l’ammoniaca e l’urea, l’impennata dei prezzi energetici si è trasferita automaticamente sui costi agricoli, innescando una spirale inflazionistica che ha investito l’intera filiera agroalimentare. La situazione è stata aggravata dalla crisi geopolitica apertasi ai confini orientali dell’Unione europea, che ha contribuito a spingere ulteriormente verso l’alto i prezzi dell’energia e delle materie prime.
L’analisi dell’Istat evidenzia che gli alimentari freschi, ovvero quelli non lavorati, hanno subito incrementi superiori rispetto a quelli lavorati, con aumenti rispettivamente del 26,2% e del 24,3% tra ottobre 2021 e ottobre 2025. Il prezzo complessivo del cibo ha registrato a settembre 2025 una crescita del 26,8% rispetto a ottobre 2021, con picchi particolarmente elevati per alcune categorie: i prodotti vegetali hanno segnato un balzo del 32,7%, latte formaggi e uova sono aumentati del 28,1%, mentre pane e cereali hanno visto un incremento del 25,5%.
Allargando l’orizzonte temporale, il quadro diventa ancora più preoccupante. Rispetto al 2019, i prodotti alimentari costano oggi quasi un terzo in più, con un incremento del 30,1% certificato dall’Istat nella nota sull’andamento dell’economia pubblicata a settembre 2025. Alcuni prodotti hanno registrato rincari astronomici: il burro detiene il primato con un aumento del 60% in sei anni rispetto ad agosto 2019, seguito dall’olio d’oliva con un balzo del 53,2%, il riso con un incremento del 52% e il cacao in polvere salito del 51,4%. Il prezzo del caffè è cresciuto del 47,6%, quello dell’olio di semi del 43,6%, le patate del 40,5%, mentre zucchero, verdura fresca e uova hanno registrato rincari compresi tra il 34% e il 38%.
I cambiamenti climatici hanno giocato un ruolo significativo in questo scenario, con ondate di calore e nubifragi che hanno devastato le coltivazioni tagliando le produzioni in diversi comparti. La stagione agricola 2025 è stata una prova concreta degli impatti degli eventi climatici estremi, con crolli produttivi che hanno raggiunto il 70-100% per le ciliegie in alcune zone della Puglia, il 60% per le albicocche e quasi il 25% per le pere rispetto al 2024. Lo stress termico ha ridotto significativamente la produzione di latte in Lombardia fino al 15%, con perdite fino a 1,8 milioni di litri al giorno durante i picchi estivi.
Il confronto europeo: Italia meno colpita ma non risparmiata
Il fenomeno inflazionistico nel settore alimentare non ha riguardato esclusivamente l’Italia ma ha investito con intensità differente l’intero continente europeo. Nel periodo tra ottobre 2021 e ottobre 2025, i prezzi del cibo sono aumentati del 29% per l’area euro e del 32,3% nell’Unione europea a 27, con la Germania che ha registrato un incremento del 32,8% e la Spagna del 29,5%. La Francia ha mostrato incrementi leggermente inferiori, attestandosi al 23,9%, mentre l’Italia con il suo 24,9% si colloca in una posizione intermedia.
Ampliando la prospettiva al periodo 2019-2025, l’aumento medio degli alimentari dal 2019 in Italia si è mantenuto sostanzialmente in linea con il tasso di inflazione al 30,1%, un andamento simile a quello registrato in Francia con il 27,5%, mentre Germania e Spagna hanno sperimentato rincari superiori al 30%, rispettivamente del 40,3% e del 38,2%. I Paesi Baltici hanno sperimentato gli aumenti più drammatici, con la Lituania che ha registrato un incremento del 55% rispetto al periodo pre-pandemico. Tuttavia, come sottolineato dalle associazioni dei consumatori, il confronto europeo basato sugli indici va preso con cautela, poiché non tiene conto del livello assoluto dei prezzi né del diverso andamento salariale tra i Paesi. Nel contesto italiano, dove i prezzi erano già elevati e gli stipendi da trent’anni non sono stati adeguati né all’inflazione reale né a quella programmata, questi aumenti risultano particolarmente insostenibili per le famiglie.
Il recupero parziale dei margini di profitto
Negli ultimi due anni, la dinamica di crescita dei prezzi alimentari è stata più contenuta rispetto al biennio 2022-2023 e, in parte, è stata sostenuta dal recupero dei margini di profitto delle imprese del settore agricolo. L’industria alimentare italiana nel 2023 ha confermato la crescita con un aumento del fatturato nominale del 7,5%, recuperando l’inflazione alla produzione del 6,4% e chiudendo l’anno con un progresso reale dell’1%. Il settore della grande distribuzione organizzata a prevalenza alimentare ha visto la sua redditività risalire a un margine del 5,7% nel 2023, rispetto al 4,9% dell’anno precedente, superando il 5,5% registrato nel 2021.
L’analisi di Mediobanca ha evidenziato che l’incidenza del costo del lavoro sul fatturato ha perso fra uno e due punti percentuali, segno che a pagare il conto della pandemia e della crisi energetica sono stati soprattutto i dipendenti. Nella grande distribuzione il peso del costo del lavoro sul fatturato è calato dall’11% del 2017 al 9,4% del 2023, mentre nell’industria alimentare il trend è stato analogo in tutti i comparti: nelle bevande è passato dal 10% all’8,3%, nel caseario dall’8% al 5,9%, nel conserviero dal 10,6% all’8,8% e nel dolciario dal 15,4% al 13,3%. I discount hanno registrato le marginalità più elevate nel 2023, con un margine operativo che si è attestato al 4,8% rispetto al 2,3% degli altri gruppi della grande distribuzione, mentre l’indice di redditività del capitale investito ha raggiunto il 16,5% contro il 5,9% degli altri operatori.
L’impatto devastante sulle famiglie italiane
Le conseguenze sui bilanci familiari sono state drammatiche. Il peso di cibi e bevande sulla totalità dei consumi di una famiglia media è salito negli ultimi anni dal 17,7% al 19,2%, a dimostrazione degli effetti negativi dei rincari. Nel 2024 la spesa media mensile per consumi delle famiglie in valori correnti si è attestata a 2.755 euro, sostanzialmente stabile rispetto ai 2.738 euro del 2023, ma con una crescita del 7,6% rispetto ai 2.561 euro del 2019 a fronte di un’inflazione misurata dall’indice armonizzato dei prezzi al consumo del 18,5% nello stesso arco temporale. Questo significa che per il secondo anno consecutivo il potere d’acquisto reale delle famiglie è diminuito, nonostante l’aumento nominale della spesa.
A luglio 2025 il rincaro medio del carrello della spesa è stato del 3,4% secondo Federconsumatori, con un impatto stimato di circa 535 euro annui per famiglia, di cui oltre 190 euro solo per l’alimentazione. Nel 2023 i prezzi dei beni alimentari hanno accelerato del 9,8% rispetto all’8,8% del 2022, con gli alimentari non lavorati che hanno registrato aumenti ancora più marcati. Nonostante il rallentamento dell’inflazione generale scesa all’1,2% a ottobre 2025, il carrello della spesa ha continuato a crescere mantenendo i prezzi su livelli elevati. Gli alimentari non lavorati hanno mostrato a settembre 2025 un incremento tendenziale del 4,8%, mentre i beni alimentari per la cura della casa e della persona hanno registrato una crescita del 3,1%.
Il dato più allarmante riguarda la quota delle famiglie costrette a limitare la quantità e la qualità del cibo acquistato. Nel 2024 il 31,1% dei nuclei familiari ha dichiarato di aver provato nel corso dell’anno a ridurre le spese alimentari, una percentuale sostanzialmente invariata rispetto al 31,5% del 2023. Secondo il rapporto dell’Istat sulla povertà alimentare relativo al 2023, il 5,6% della popolazione ha dovuto chiedere aiuti alimentari o materiali per la propria famiglia, con le famiglie di origine straniera e quelle con persone con disabilità e minori tra le più in difficoltà. Circa il 51% dei nuclei ha fatto acquisti di prodotti prossimi alla scadenza per risparmiare, mentre visite mediche, cultura e vacanze vengono sempre più rimandate a causa della preoccupazione sulle spese.
Le disparità territoriali aggravano ulteriormente il quadro. Nel Nord-est la spesa media mensile raggiunge i 3.032 euro, mentre nel Sud si ferma a 2.199 euro, con una differenza di 834 euro mensili. Le famiglie che spendono di più sono quelle residenti nei comuni centro di area metropolitana con 2.999 euro mensili, mentre i livelli di spesa più contenuti si osservano nei comuni più piccoli con 2.638 euro, circa il 12% in meno rispetto alle aree metropolitane. Poiché la distribuzione dei consumi è asimmetrica e più concentrata nei livelli medio-bassi, la maggioranza delle famiglie spende un importo inferiore al valore medio: il valore mediano nel 2024 risulta pari a 2.240 euro, ben al di sotto della media nazionale.
Salari reali in caduta libera
A complicare ulteriormente il quadro si aggiunge la drammatica stagnazione dei salari reali. All’inizio del 2025 i salari reali italiani risultavano ancora inferiori del 7,5% rispetto al gennaio 2021, secondo i dati presentati dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. A settembre 2025 le retribuzioni contrattuali in termini reali restavano inferiori dell’8,8% rispetto ai livelli di gennaio 2021, una performance peggiore rispetto alla maggior parte dei Paesi avanzati. Dal 2019 al 2023 i redditi da lavoro reali annuali in Italia sono scesi del 3,4%, mentre nello stesso periodo sono cresciuti di circa il 50% negli Stati Uniti e di circa il 30% in Francia e Germania.
Dalla fine del 2021, la retribuzione media aggiustata per l’inflazione è diminuita in Italia del 2,2%, a fronte di incrementi superiori all’1% in media nell’Eurozona. Secondo le stime dell’Ocse, i salari nominali dovrebbero aumentare in Italia del 2,6% nel 2025 e del 2,2% nel 2026, incrementi che garantirebbero ai lavoratori italiani guadagni in termini reali dato che l’inflazione è prevista al 2,2% nel 2025 e all’1,8% nel 2026, ma insufficienti a colmare il divario accumulato negli anni precedenti. Nel terzo trimestre del 2025 la crescita delle retribuzioni ha rallentato dopo i segnali più vivaci dei mesi precedenti, rimanendo appena sopra l’inflazione ma con una spinta affievolita. A settembre l’indice delle retribuzioni orarie è rimasto fermo rispetto ad agosto, registrando un aumento del 2,6% su base annua.
Il risultato è che il potere d’acquisto delle famiglie resta debole e la ripresa dei consumi ancora fragile. In un contesto europeo in cui altri Paesi hanno puntato su una crescita dei salari per sostenere la domanda interna, l’Italia si trova a rincorrere. Quel meno 8,8% rispetto al gennaio 2021 non è solo una cifra statistica, ma la misura di un ritardo che tocca la quotidianità di milioni di lavoratori. In questi anni, i salari reali di lavoratori e lavoratrici sono calati rispettivamente del 3,3% e del 3,2%, superando in negativo la media delle economie avanzate. Estendendo il confronto al secondo trimestre del 2019, la variazione rimane negativa attestandosi al meno 1,7%, e proseguendo a questo ritmo molto lento, nel giro di uno o al massimo due anni le retribuzioni potrebbero tornare ai livelli pre-Covid, ma sempre con un divario significativo rispetto al 2021.
Povertà in crescita e interventi insufficienti
Il combinato disposto di rincari alimentari e salari stagnanti ha portato a un drammatico aumento della povertà. Nel 2024 sono state almeno 277.775 le persone che in Italia si sono rivolte a centri di ascolto, mense, empori solidali e altri servizi per chiedere un aiuto concreto, con un incremento del 3% rispetto al 2023 e del 62,6% rispetto al 2014, con una crescita particolarmente marcata nel Nord e nel Mezzogiorno. Oggi si contano complessivamente 5 milioni e 694mila poveri assoluti in Italia, per un totale di 2 milioni e 217mila famiglie che non dispongono delle risorse necessarie per una vita dignitosa, impossibilitati ad accedere a un paniere di beni e servizi essenziali quali alimentazione adeguata, abbigliamento e abitazione, rappresentando il 9,7% della popolazione.
L’Italia è il settimo Paese europeo per incidenza di persone a rischio povertà o esclusione sociale, con il 23,1% della popolazione in questa condizione, in aumento rispetto al 22,8% del 2023. Solo Bulgaria, Romania, Grecia, Spagna, Lettonia e Lituania registrano valori più alti. In Europa il 21% della popolazione vive in una condizione di rischio povertà o esclusione sociale, oltre 93 milioni di individui che sperimentano condizioni di grave deprivazione materiale e sociale o che sono penalizzati sul fronte del reddito o da una condizione di bassa intensità lavorativa. I dati raccolti dalla rete Caritas confermano che la disoccupazione colpisce il 47,9% delle persone assistite, mentre oltre il 30% nella fascia fra i 35 e i 54 anni si trova in condizioni di lavoro povero.
Di fronte a questa emergenza sociale, gli interventi governativi appaiono limitati. Il decreto Bollette approvato nel febbraio 2025 ha stanziato complessivamente 3 miliardi di euro, di cui circa 1,6 miliardi per le famiglie e 1,4 miliardi per le imprese. Per le famiglie con reddito Isee fino a 25mila euro è stato previsto un contributo straordinario di 200 euro per il secondo trimestre, mentre per i nuclei con Isee inferiore a 9.530 euro il bonus è salito a oltre 500 euro. Le misure hanno interessato principalmente il contrasto al caro energia, con una riduzione degli oneri di sistema per le piccole e medie imprese stimata intorno al 20%. Il governo ha inoltre deciso che lo Stato rinuncerà a una parte dell’Iva sull’energia, destinando l’eccedenza al contenimento delle tariffe energetiche.
Tuttavia, le organizzazioni dei consumatori e le associazioni di categoria hanno sottolineato l’urgenza di misure più strutturali per sostenere il potere d’acquisto, come la rimodulazione dell’Iva sui beni alimentari di largo consumo, che consentirebbe un risparmio di oltre 531 euro annui a famiglia, la riforma degli oneri di sistema sui beni energetici eliminando voci obsolete e spostandone altre sulla fiscalità generale, la creazione di un fondo di contrasto alla povertà energetica e alimentare, maggiori aiuti per le spese relative a scuola e università per garantire il diritto allo studio, e lo stanziamento di maggiori risorse per la sanità pubblica. L’Osservatorio nazionale Federconsumatori ha stimato che nel 2025 si prospetta un aggravio complessivo di 912,20 euro annui per famiglia, una cifra che rischia di aggravare ulteriormente la crisi del potere d’acquisto. I dati raccolti da Caritas evidenziano inoltre una contrazione della platea dei beneficiari dell’Assegno di inclusione, del Supporto formazione al lavoro e dell’Assegno unico del 40-47%, senza che questo abbia migliorato l’efficacia delle misure nel contrasto alla povertà. Per restare sempre aggiornato scarica GRATIS la nostra App!
