Violenza, l’educazione affettiva non basta: famiglie e accesso ai social alimentano l’emergenza

I dati mostrano un’escalation della violenza giovanile con omicidi triplicati nel 2024. Esperti e magistrati concordano: non basta l’educazione affettiva scolastica, servono famiglie responsabili, certezza della pena e controlli severi sui social media per i minori.
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La crescente ondata di violenza giovanile che attraversa l’Italia richiede un ripensamento radicale delle strategie di contrasto, andando oltre le soluzioni superficiali come l’introduzione dell’educazione affettiva nelle scuole per affrontare le vere radici del problema: famiglie che hanno abdicato al loro ruolo educativo, un sistema giudiziario spesso permissivo e l’accesso incontrollato dei minori alle piattaforme digitali. I dati della Criminalpol per il 2024 fotografano uno scenario allarmante, con gli omicidi commessi da minori quasi triplicati rispetto all’anno precedente, mentre le rapine perpetrate da adolescenti sono raddoppiate, spesso senza finalità economiche ma come pure manifestazioni di prevaricazione verso i coetanei.

Marco Dugato, sociologo del centro di ricerca Transcrime della Cattolica di Milano, evidenzia come le rapine rappresentino il dato più preoccupante, configurandosi principalmente come reati violenti piuttosto che economici, spesso perpetrati contro coetanei dello stesso gruppo sociale. Questa dinamica rivela una perdita di valori fondamentali e di rispetto per l’altro che non può essere risolta con qualche ora settimanale di educazione sentimentale. Il fenomeno, del resto, non è circoscritto all’Italia: da Londra a Berlino, da Parigi alle principali capitali europee, si registra un preoccupante allarme per l’uso di armi bianche da strada tra i giovani, suggerendo che siamo di fronte a una crisi educativa e valoriale di portata continentale che richiede interventi strutturali.

Il fallimento della famiglia moderna emerge con chiarezza dalle analisi dei criminologi che si occupano di devianza minorile. Mauro Grimoldi, esperto di criminologia minorile, attribuisce una responsabilità significativa al modello di “famiglia affettiva” che si è affermato negli ultimi decenni, sostituendo la tradizionale “famiglia normativa” di fine Ottocento e inizio Novecento. Questo nuovo paradigma familiare, caratterizzato da genitori iperprotettivi che mettono il bambino “a capotavola del desco famigliare”, protegge i figli dalle frustrazioni durante l’infanzia ma li espone a traumi emotivi devastanti durante l’adolescenza, quando si confrontano per la prima volta con i problemi della vita scolastica, delle relazioni interpersonali e delle esperienze amorose.

La trasformazione del nucleo familiare ha prodotto una generazione di giovani incapaci di gestire il rifiuto, la sconfitta e la frustrazione, elementi inevitabili dell’esperienza umana. Quando questi ragazzi, cresciuti nell’illusione dell’onnipotenza, si scontrano con la realtà, possono manifestare reazioni violente sproporzionate, percependo ogni ostacolo come un’ingiustizia intollerabile. La cultura dell’onnipotenza, alimentata da genitori che faticano a porre limiti educativi efficaci, impedisce la costruzione di un autentico sentimento normativo e del rispetto per le regole sociali. In questo contesto, l’educazione affettiva scolastica appare come un pallido tentativo di rimediare a decenni di mancata educazione familiare.

Paolo Crepet, noto psichiatra e sociologo, ha definito l’educazione affettiva nelle scuole “un’illusione”, sostenendo che “non si può scardinare una cultura millenaria e sbagliata con una o due ore alla settimana di educazione affettiva”. L’esperto sottolinea come il problema risieda nell’incapacità dei genitori di instaurare un dialogo autentico con i propri figli, limitandosi a rendergli la vita facile e assecondando ogni loro richiesta senza mai chiedere semplicemente “come stai?”. Anche Cesare Natoli, docente e intellettuale, critica aspramente l’idea di introdurre l’educazione affettiva curricolare, sostenendo che la scuola, se lasciata nelle mani giuste, già fornisce educazione affettiva, cognitiva e critica attraverso l’insegnamento della letteratura, della filosofia e delle arti.

Parallelamente al fallimento educativo familiare, emerge con prepotenza il problema dell’impunità percepita dai giovani delinquenti. Ciro Cascone, procuratore della Repubblica presso il Tribunale dei Minori di Milano, ha dovuto smentire categoricamente l’idea che “ai ragazzini non succede mai niente”, precisando che nei primi due mesi del 2024 almeno 65 minori sono stati sottoposti a misure cautelari, di cui una ventina in carcere. Tuttavia, il magistrato ammette che il sistema deve “dare un argine, un messaggio chiaro che non c’è impunità”, riconoscendo implicitamente che questa percezione di impunità ha contribuito all’escalation della violenza giovanile.

Il governo ha tentato di rispondere con il Decreto Caivano, introducendo misure urgenti di contrasto al disagio giovanile e alla criminalità minorile, ampliando gli istituti di contenimento delle condotte devianti, inasprendo le pene ed estendendo l’ambito di applicazione delle misure cautelari anche ai minori infraquattordicenni non imputabili. Tuttavia, molti esperti sollevano dubbi sull’efficacia di un approccio puramente repressivo che non affronta le cause strutturali del problema, a partire dalla crisi educativa delle famiglie e dall’influenza deleteria dei media digitali.

L’accesso incontrollato ai social media rappresenta infatti un ulteriore fattore di rischio troppo spesso sottovalutato. Gli studi dell’Università Cattolica e del Ministero del Made in Italy rivelano che il 53% dei ragazzi dai 13 anni in su ha avuto esperienze “negative gravi e ripetute” sui social, mentre il Ministero della Salute stima che l’uso “problematico” dei social tra gli 11 e i 15 anni si attesta intorno al 10%, con picchi del 20% per le ragazze tredicenni. Questi spazi digitali facilitano comportamenti violenti come cyberbullismo, molestie online e sfide pericolose, trasformando gli adolescenti alternativamente in vittime e perpetratori di abusi.

L’Australia ha recentemente approvato una legge pionieristica che vieta l’accesso ai social media ai minori di 16 anni, con sanzioni fino a 50 milioni di dollari australiani per le piattaforme che non rispettano il divieto. Un sondaggio YouGov ha mostrato che il 77% degli australiani sostiene questa misura, evidenziando una crescente consapevolezza dei rischi connessi all’esposizione precoce ai social network. In Italia sono state presentate quattro proposte di legge parlamentari per vietare l’accesso ai social ai minori di 15 o 16 anni, riconoscendo finalmente che la regolamentazione tecnologica deve accompagnare l’azione educativa per proteggere efficacemente i minori.

La violenza giovanile rappresenta il sintomo di una società che ha progressivamente abdicato ai propri doveri educativi, delegando alla scuola responsabilità che spettano primariamente alla famiglia e sottovalutando l’impatto devastante di un accesso prematuro e non mediato alle tecnologie digitali. Solo un approccio integrato che responsabilizzi le famiglie, garantisca certezza della pena per i reati commessi da minori e regolamenti severamente l’accesso dei giovani ai social media potrà invertire una tendenza che minaccia di compromettere irreversibilmente il tessuto sociale del Paese. L’educazione affettiva scolastica, pur nelle migliori intenzioni, rischia di rappresentare un costoso palliativo che distoglie l’attenzione dalle vere cause del problema, alimentando l’illusione che poche ore di lezione possano compensare anni di mancata educazione familiare e di esposizione a contenuti inappropriati.