Referendum, quando anche a sinistra invitavano all’astensione: tutti i precedenti

La sinistra italiana ha utilizzato più volte l’invito all’astensione referendaria come strumento politico: da Fassino e Cofferati nel 2003, a Renzi nel 2016 con l’avallo di Napolitano, fino ai referendum sulla giustizia del 2022.

Il dibattito sull’astensionismo referendario che infiamma la politica italiana in vista del voto dell’8 e 9 giugno presenta una curiosa amnesia storica da parte delle opposizioni, che oggi accusano la maggioranza di minare la democrazia invitando i cittadini a non recarsi alle urne. Una ricostruzione degli ultimi trent’anni di consultazioni referendarie rivela infatti come l’invito al non voto sia stato utilizzato trasversalmente da tutti gli schieramenti politici, compresa quella stessa sinistra che oggi grida al tradimento dei valori democratici.

Il primo episodio significativo risale al 2003, quando si tenne un referendum promosso da Rifondazione Comunista per estendere l’applicazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori anche alle piccole imprese con meno di sedici dipendenti. In quell’occasione, il segretario dei Democratici di Sinistra Piero Fassino dichiarò apertamente: “Il referendum è dannoso, la cosa giusta è renderlo inutile non partecipando al voto”. Una posizione condivisa pubblicamente anche da Sergio Cofferati, ex segretario della CGIL e figura di spicco della sinistra italiana, che annunciò la sua intenzione di non recarsi alle urne nonostante le pressioni del sindacato di cui aveva guidato le sorti. Cofferati giustificò la sua scelta spiegando di essere contrario al quesito “perché finisce per dividere quello che in questi mesi abbiamo edificato”, riferendosi agli equilibri politici del centrosinistra.

La strategia dell’astensione venne replicata nel 2009, quando si votò per i referendum sul sistema elettorale. In questa circostanza, Rifondazione Comunista e Sinistra e Libertà dichiararono esplicitamente di voler far fallire il quorum, invitando i cittadini a non ritirare nemmeno le schede elettorali. Una scelta che dimostra come l’utilizzo dell’astensionismo come strumento politico non fosse affatto estraneo alla cultura della sinistra italiana, contrariamente a quanto sostenuto nelle attuali polemiche.

L’esempio più eclatante e politicamente rilevante si verificò nel 2016, in occasione del referendum sulle trivellazioni marine. L’allora presidente del Consiglio e segretario del Partito Democratico Matteo Renzi adottò una strategia di opposizione al quesito definendolo “una bufala” e sostenendo la legittimità dell’astensione. La posizione di Renzi trovò un autorevole sostegno nell’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che in un’intervista dichiarò: “Se la Costituzione prevede che la non partecipazione della maggioranza degli aventi diritto è causa di nullità, non andare a votare è un modo di esprimersi sull’inconsistenza dell’iniziativa referendaria”. Queste parole, oggi rilanciate dal governo Meloni per giustificare la propria posizione, rappresentano una certificazione autorevole della piena legittimità costituzionale dell’astensionismo referendario.

La strategia renziana si rivelò efficace: il referendum sulle trivelle non raggiunse il quorum, fermandosi al 31,2% di affluenza. Una vittoria politica per il governo di centrosinistra che aveva puntato tutto sulla delegittimazione della consultazione popolare, utilizzando gli stessi argomenti oggi contestati quando provengono dalla destra. Il Partito Democratico arrivò addirittura a essere iscritto ufficialmente nell’elenco dei soggetti favorevoli al non voto presso l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, senza che questo suscitasse particolari scandali democratici.

Ancora più recentemente, nel 2022, la sinistra politica e sociale operò sistematicamente per il fallimento dei referendum sulla giustizia attraverso l’astensione. Il segretario del Pd Enrico Letta, pur esprimendo personalmente una preferenza per il “No”, scelse di non squassare il partito adottando la “libertà di voto”, formula diplomatica che di fatto equivaleva a lasciare spazio all’astensione. Una scelta che consentì ai dirigenti democratici di non esporsi pubblicamente ma che nei fatti favorì il mancato raggiungimento del quorum, con i quesiti che si fermarono al 20,9% di affluenza.

La questione della legittimità dell’astensionismo referendario trova le sue radici nella stessa architettura costituzionale italiana. L’articolo 48 della Costituzione stabilisce che il voto è “personale ed eguale, libero e segreto” e che “il suo esercizio è dovere civico”, ma non prevede alcuna sanzione per chi sceglie di non recarsi alle urne. Inoltre, la previsione del quorum del 50% più uno degli aventi diritto per la validità dei referendum abrogativi rappresenta una scelta precisa del costituente, che ha voluto garantire che le modifiche legislative abbiano un consenso sufficientemente ampio nella popolazione.

Le stesse leggi nn. 276 e 277 del 4 agosto 1993 hanno definitivamente chiarito che l’astensionismo debba essere considerato “un comportamento legittimo del cittadino”, ridefinendo l’espressione del voto come un diritto e non più come un diritto-dovere. Venne infatti abrogata la norma che prevedeva l’iscrizione della dicitura “non ha votato” nei certificati di buona condotta per cinque anni, eliminando qualsiasi forma di sanzione sociale per chi sceglieva di non partecipare alle consultazioni elettorali.

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Al di là delle considerazioni strettamente costituzionali, l’invito all’astensione rappresenta da sempre uno strumento politico considerato legittimo da tutti gli schierati. Come osservato da diversi analisti, “siccome mobilitare l’elettorato moderato è difficile, meglio assecondare la sua propensione a restare a casa”. Si tratta di una strategia che riconosce la difficoltà di convincere cittadini poco informati o interessati sui temi specifici dei quesiti, puntando invece sulla naturale tendenza all’assenteismo che caratterizza le consultazioni referendarie.

Le motivazioni che spingono i cittadini a non votare possono essere molteplici e tutte ugualmente legittime: dalla convinzione che le norme oggetto del referendum, se abrogate, potrebbero peggiorare la situazione, alla percezione che i problemi in discussione non si risolvano “a colpi di legge”. Molti elettori possono sentirsi “incompetenti sulla materia in discussione e preferire non dare giudizi improvvisati”, oppure semplicemente non essere interessati perché “la loro vita e le loro speranze risiedono altrove”. In una società libera, nessuno di questi atteggiamenti può essere considerato illegittimo o antidemocratico.

Il confronto tra le posizioni assunte dalla sinistra in passato e le critiche mosse oggi al governo Meloni rivela una evidente contraddizione politica. Gli stessi partiti che hanno utilizzato l’astensionismo come arma politica quando si trovavano al governo, oggi denunciano come “antidemocratico” l’invito a non votare proveniente dalla maggioranza di centrodestra. Questa metamorfosi testimonia come la valutazione dell’astensionismo dipenda più dalla convenienza politica del momento che da principi democratici consolidati.

Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha sottolineato questa incongruenza osservando che “in passato non sono mancati appelli all’astensione da parte di importanti leader e autorevoli organi di stampa appartenenti all’area politica che oggi pretende di imporre un obbligo di votare del tutto insussistente”. Una considerazione che mette in luce come il dibattito attuale sia viziato da una selettiva amnesia storica, che cancella convenientemente i precedenti quando questi contraddicono la narrativa politica del momento.

La questione assume contorni ancora più paradossali se si considera che il Partito Democratico sta ora chiedendo agli italiani di abrogare il Jobs Act, una riforma varata dallo stesso partito quando Matteo Renzi ne era segretario. Questa contraddizione interna rende difficile sostenere che la battaglia referendaria sia motivata da principi coerenti piuttosto che da calcoli elettorali contingenti. Come osservato da diversi commentatori, “perché il Pd chiede di votare contro una legge che si deve proprio a quel partito?”, una domanda che evidenzia le contraddizioni politiche che attraversano l’intera vicenda referendaria.