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La Batteria di Baghdad, un enigma ancora irrisolto

Un vaso di terracotta, una spirale di rame e una barra di ferro: semplice contenitore o cella elettrica dimenticata? Un mistero archeologico che continua a sfidare la scienza moderna.

Nel cuore dell’antica Mesopotamia, in un’area oggi corrispondente all’Iraq moderno, è stato rinvenuto un oggetto che da decenni accende il dibattito tra archeologi, storici della scienza e appassionati di enigmi tecnologici del passato: la cosiddetta “Batteria di Baghdad”. Si tratta di un artefatto risalente a circa 2000 anni fa, scoperto negli anni ’30 del XX secolo, che alcuni studiosi hanno ipotizzato potesse essere una primitiva cella elettrochimica. Se questa interpretazione fosse corretta, riscriverebbe in parte la nostra comprensione della storia della tecnologia.

La scoperta della presunta “batteria” avvenne nel 1936 presso il villaggio di Khujut Rabu, a sud-est di Baghdad, durante gli scavi condotti dal direttore del Museo Nazionale dell’Iraq, Wilhelm König. L’oggetto fu descritto per la prima volta in dettaglio nel 1938, quando König ne pubblicò un’analisi ipotizzando la sua natura elettrochimica. Il manufatto si compone di un vaso di terracotta alto circa 13-15 cm, contenente un cilindro di rame saldato con una lega di piombo e stagno, all’interno del quale era inserita una barra di ferro ossidata. Il tutto era sigillato con un tappo di bitume.

L’analisi dei materiali suggerisce che i componenti siano stati assemblati in modo deliberato e con perizia tecnica. Il rame e il ferro, isolati elettricamente l’uno dall’altro da un tappo non conduttivo (il bitume), potevano teoricamente creare una differenza di potenziale se immersi in una soluzione elettrolitica, come aceto o succo di limone — entrambi noti e disponibili all’epoca.

In laboratorio, diverse repliche dell’oggetto hanno effettivamente generato una tensione elettrica di circa 0,5-1 volt. Tuttavia, si tratta di una potenza estremamente bassa, utile al massimo per reazioni semplici, come la galvanizzazione di metalli con uno strato sottile di oro o argento.

L’ipotesi più suggestiva è che l’oggetto sia una primitiva pila elettrochimica, usata forse a scopi medici, rituali o per la doratura galvanica. Alcune teorie sostengono che la doratura elettrolitica potrebbe spiegare la finezza con cui sono stati rivestiti alcuni manufatti mesopotamici. Tuttavia, non sono mai stati rinvenuti strumenti di galvanostegia o prove inequivocabili di tale pratica nell’antichità mesopotamica.

Vi sono anche teorie alternative meno accreditate, tra cui quelle che propongono usi religiosi o simbolici (il ferro all’interno del rame avrebbe potuto simboleggiare il dualismo tra divinità o elementi naturali) o che la “batteria” fosse un semplice contenitore per pergamene o papiri, come suggeriscono alcuni studiosi più scettici.

Numerosi archeologi e storici della scienza mettono in dubbio l’interpretazione elettrochimica. Innanzitutto, manca un contesto archeologico preciso: l’oggetto fu recuperato in uno scavo non stratigraficamente documentato, rendendo difficile la sua datazione e funzione. Inoltre, non esistono testi o raffigurazioni dell’epoca che suggeriscano l’uso dell’elettricità, né altre testimonianze di strumenti affini.

Altri oggetti simili sono stati trovati in diverse tombe partiche, ma nessuno di essi contiene residui di acido o elementi chimici compatibili con un uso elettrolitico. Alcuni scienziati propongono che l’oggetto fosse parte di un sistema per conservare pergamene o rotoli metallici, e che l’ossido di ferro fosse frutto di semplice corrosione accidentale.

Attribuire una conoscenza elettrochimica ai Parti — la civiltà dominante nella regione al tempo presunto della batteria (tra il 250 a.C. e il 225 d.C.) — implicherebbe rivedere gran parte della storia della tecnologia. Nonostante fossero una civiltà avanzata in campo artistico e architettonico, non ci sono prove che avessero sviluppato nozioni di fisica o chimica tali da sfruttare l’energia elettrica.

Le prime documentazioni scientifiche sull’elettricità risalgono all’epoca ellenistica, con i lavori di Talete e poi, molto più tardi, alle scoperte settecentesche di Galvani, Volta e Franklin. Pensare che una civiltà antica abbia scoperto l’elettricità senza lasciarne traccia scritta o tecnologica appare, agli occhi della scienza ortodossa, altamente improbabile.

La Batteria di Baghdad resta un oggetto enigmatico, al confine tra archeologia e storia della scienza. È possibile che si tratti di un artefatto con una funzione del tutto diversa da quella ipotizzata, la cui interpretazione moderna sia viziata da una proiezione retroattiva di conoscenze tecnologiche contemporanee.

Tuttavia, come spesso accade nella scienza, anche le ipotesi più azzardate possono stimolare riflessioni e studi interdisciplinari. Che si tratti di una pila ante litteram o di un oggetto rituale mal interpretato, la Batteria di Baghdad continua a sollecitare domande fondamentali sul livello tecnologico delle antiche civiltà. Per restare sempre aggiornato scarica GRATIS la nostra App!

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