Gioielli di Casa Savoia, rigettata la richiesta di restituzione: perché è un errore

Il Tribunale di Roma nega la restituzione dei gioielli di Casa Savoia nonostante le testimonianze storiche che li identificano come proprietà privata. Una sentenza che tradisce pregiudizi ideologici e nega il principio della proprietà privata.

Il Tribunale civile di Roma ha scritto ieri l’ennesima pagina di un’ingiustizia che si protrae da quasi ottant’anni. Con una sentenza che appare più politica che giuridica, i giudici hanno rigettato la legittima richiesta della famiglia Savoia di vedersi restituire i gioielli depositati presso Bankitalia il 5 giugno 1946, appena tre giorni dopo il referendum che sancì la nascita della Repubblica italiana. Una decisione che calpesta non solo i diritti di proprietà privata, ma anche la verità storica che emerge dai documenti dell’epoca.

Il tesoro conteso – un patrimonio stimato in circa 300 milioni di euro composto da oltre 6.700 brillanti e 2.000 perle per quasi 2.000 carati complessivi – fu affidato all’allora governatore della Banca d’Italia Luigi Einaudi dal ministro della Real Casa, Falcone Lucifero. Nel verbale di consegna, i preziosi vennero definiti “gioie di dotazione della Corona del Regno”, formula sulla quale il tribunale ha fondato la propria sentenza per negarne la restituzione agli eredi. Una lettura formalistica e riduttiva che ignora volutamente le testimonianze storiche più autorevoli.

I diari dello stesso Einaudi, futuro Presidente della Repubblica italiana, rivelano una verità ben diversa. Come riportato nel comunicato diffuso dall’avvocato dei Savoia, Einaudi scrisse chiaramente: “potrebbe ritenersi che le gioie spettano non al demanio dello Stato, ma alla famiglia reale”. Una valutazione condivisa persino da Alcide De Gasperi, che riconosceva lo “scrupolo” dimostrato dal Re nell’affidarli in custodia. Ulteriore conferma arriva dalle parole di Einaudi quando annota che il sovrano “doveva anche tener conto dei figli e dei loro eventuali diritti patrimoniali”. Possibile che il tribunale abbia ignorato testimonianze così autorevoli?

La verità è che questa sentenza rappresenta l’ennesimo capitolo di una persecuzione politica che si protrae da decenni. Dopo l’esilio forzato, dopo la confisca di numerosi beni e proprietà, lo Stato italiano continua a negare alla famiglia Savoia ciò che legittimamente le appartiene, trincerandosi dietro interpretazioni giuridiche che appaiono strumentali. Se in un qualsiasi altro caso si presentassero testimonianze così chiare sulla proprietà di un bene, difficilmente un tribunale oserebbe negarne la restituzione.

Non sorprende dunque che il principe Emanuele Filiberto, insieme alle principesse Maria Gabriella, Maria Pia e Maria Beatrice di Savoia, abbia annunciato l’intenzione di ricorrere alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Una giustizia superiore e imparziale potrà finalmente valutare la questione al di fuori dei condizionamenti ideologici che ancora sembrano influenzare le decisioni dei tribunali italiani in materia.

È profondamente ingiusto che, a quasi ottant’anni dalla nascita della Repubblica e a trent’anni dall’abrogazione della norma costituzionale che impediva il rientro dei Savoia in Italia, lo Stato continui a negare la restituzione di beni che chiaramente appartengono alla sfera privata della famiglia. Questi gioielli non furono mai confiscati formalmente, ma semplicemente affidati in custodia “a disposizione di chi di diritto”, come recita il verbale dell’epoca.

Da un punto di vista conservatore, questa vicenda rivela quanto sia ancora fragile il principio della proprietà privata nel nostro ordinamento, soprattutto quando si scontra con pregiudizi ideologici. In tutti i paesi europei con un passato monarchico – basti pensare alla Gran Bretagna, alla Spagna o alla Svezia – è sempre stata chiara la distinzione tra i beni dello Stato e quelli personali delle famiglie reali. Solo in Italia si persiste in una confusione che, a ben vedere, tradisce una Repubblica ancora insicura delle proprie fondamenta, al punto da dover negare ogni diritto ai rappresentanti del precedente ordinamento.

Una nazione veramente matura dovrebbe essere capace di riconciliarsi con il proprio passato, riconoscendo le legittime pretese di tutti i suoi cittadini, inclusi gli eredi dell’ex casa regnante. La decisione di ricorrere alla Corte Europea rappresenta quindi non solo la difesa di un diritto patrimoniale, ma anche un tentativo di sanare una ferita storica che, evidentemente, l’Italia non è ancora pronta a chiudere.

Nel frattempo, un patrimonio inestimabile rimane nascosto nei caveau di Bankitalia, inaccessibile non solo ai legittimi proprietari ma anche all’intera collettività che potrebbe beneficiare della sua esposizione pubblica. Se almeno questi gioielli venissero esposti in un museo, come auspicato da più parti, si otterrebbe un compromesso accettabile. Ma finché prevale l’ideologia sulla giustizia, anche questa soluzione di buon senso sembra impossibile da raggiungere.

La sentenza del Tribunale di Roma non è quindi solo un torto verso la famiglia Savoia, ma rappresenta una sconfitta per l’intero sistema giuridico italiano, ancora incapace di affrancarsi da pregiudizi ideologici che dovrebbero appartenere al passato. La vera riconciliazione nazionale passa anche attraverso il riconoscimento dei diritti di proprietà di tutti i cittadini, senza esclusioni dettate da ragioni politiche.