Un confessionale lucido e amaro, affidato alle pagine di Repubblica, squarcia definitivamente il velo che per anni ha coperto il lato più oscuro dell’esistenza di Achille Costacurta, figlio dell’ex difensore rossonero Alessandro “Billy” Costacurta e dell’attrice Martina Colombari. Il ventenne, cresciuto sotto l’ingombrante riflettore di un cognome celebre, racconta senza filtri un passato di dipendenze, violenza e detenzione minorile culminato a diciassette anni in un tentativo di togliersi la vita con sette boccette di metadone, l’equivalente di quaranta grammi di eroina. Nessun medico, confessa, sa spiegarsi come quel gesto non si sia trasformato in una tragedia irreversibile, eppure – forse per una irripetibile combinazione di fortuna e resistenza fisica – Achille si è risvegliato dal buio, trovando nel dolore l’apice di una consapevolezza nuova.
L’inizio della spirale discendente risale al quindicesimo compleanno, quando nella tasca del giubbotto finiscono due coltelli la cui sola presenza in un armadietto scolastico basta a spalancargli le porte di un Istituto Penale Minorile. Dietro quelle sbarre, racconta, le sigarette diventano moneta di scambio e ogni tentativo di ribellione viene domato con punizioni corporali che scavano solchi profondi nella psiche di un adolescente già fragile. «Mi hanno spezzato una sigaretta in faccia e ho reagito con uno sputo», ricorda, «poi sono arrivati gli schiaffi dietro una porta chiusa, nel silenzio più totale». Dopo un anno e sette mesi, stremato da mura che stringono più del disagio interiore, la scelta estreme di ingerire metadone appare l’unica via di fuga possibile dalla pena e da se stesso.
Superato il confine tra vita e morte per miracolo, Achille approda alla maggiore età con un carico di inquietudini e un senso di onnipotenza alimentato dalla mescalina, allucinogeno che lo illude di poter salvare gli altri mentre sta distruggendo se stesso. Racconta di notti trascorse a raccogliere ragazzi che fumano crack per offrire loro una doccia calda, di collane d’oro regalate ai senzatetto come fossero caramelle, di una generosità compulsiva che tenta di riempire il vuoto lasciato da un equilibrio emotivo in frantumi. «Le droghe sono il demonio», ammette oggi con voce ferma, «ti prendono e ti portano via, annebbiano ogni confine fra bene e male».
In questo percorso accidentato, il rapporto con i genitori oscilla tra l’amore incondizionato e lo scontro violento. Billy Costacurta, intervistato dal Corriere della Sera, confessa di aver scoperto nei gesti della moglie una capacità di protezione sorprendente, mentre lui stesso si aggrappava alla sola certezza di voler restare al fianco del figlio, pur senza nasconderne le responsabilità. Martina Colombari, dal canto suo, racconta di notti in bianco passate a decifrare i silenzi di Achille, convinta che ogni caduta dovesse comunque trovare un argine nella famiglia.
Il punto di svolta arriva all’inizio del 2025, quando il giovane decide di allontanarsi da Milano – città che percepisce come un acceleratore d’ansia – e si trasferisce a Palermo, più precisamente a Mondello. Lì, tra il profumo salmastro del mare e la spontaneità di chi tende una mano senza chiedere nulla in cambio, Achille ritrova il valore delle piccole cose: un barista che offre le chiavi del furgone a uno sconosciuto, un panino con la frittola gustato fra i padiglioni dello Zen, una partita allo stadio Renzo Barbera osservata dalla curva insieme a volti anonimi ma sinceri. «A Palermo nessuno ti giudica», spiega, «ti accolgono come in India, dove ogni ospite è sacro. Mi ha aiutato a ricominciare».
Il cammino verso la sobrietà è tutt’altro che lineare: c’è un passaggio in una clinica di Marbella, condiviso sui social come tappa di un diario pubblico che alterna fasi di euforia a momenti di cupo ripiegamento. Ogni giorno senza alcol o sostanze diventa un piccolo trofeo da esibire, non per vanità ma per stringere un patto di trasparenza con chi segue, talvolta con morbosità, la parabola di un “figlio di” travolto da un destino che molti immaginano privilegiato ma che nasconde fenditure dolorose.
Parallelamente prende forma un progetto di solidarietà: un centro dedicato ai ragazzi con sindrome di Down, perché, dice Achille, «aiutare gli altri mi fa sentire le farfalle nello stomaco». L’idea nasce dalla consapevolezza di aver ricevuto una seconda chance e dalla necessità di restituire, attraverso l’impegno sociale, il capitale di fiducia che la vita gli ha concesso nonostante tutto.
L’autorità giudiziaria, intanto, gli ha lasciato addosso cicatrici che non si rimarginano solo con il tempo. Durante la detenzione minorile le giornate scorrevano scandite da regole inflessibili, colazioni saltate che costavano una sigaretta e l’onnipresente aura punitiva di chi veglia più sul castigo che sulla riabilitazione. Questo, spiega, lo ha convinto che le istituzioni debbano ripensare i percorsi di recupero, “perché chi sbaglia a quindici anni non deve per forza restare prigioniero di quell’errore per sempre“.
“Sono stato fortunato a naufragare così giovane», riflette oggi, «meglio attraversare l’inferno a vent’anni che trovarlo a quarantacinque con una famiglia sulle spalle“.
Il racconto di Achille Costacurta non è dunque la semplice cronaca di un eccesso rientrato, bensì lo spaccato generazionale di chi cresce in un presente liquido, dove le identità si formano e si dissolvono alla velocità di uno scroll su TikTok, e dove la fragilità mentale fatica a trovare un linguaggio che non sia quello, urlato, di una diretta social. Nel suo vissuto si intrecciano il peso delle aspettative altrui, la tentazione costante di anestetizzare la sofferenza con sostanze stupefacenti, l’inevitabile gogna mediatica che amplifica ogni caduta. Ma soprattutto si intravede una via d’uscita, resa possibile da un contesto familiare che non si è mai dissolto, dalla scelta di cambiare latitudine, dall’incontro con guide terapeutiche competenti e dal coraggio di autoparlare, senza risparmiare dettaglio alcuno, di ogni ferita aperta.
Mentre Achille riflette sul futuro, il suo percorso di disintossicazione prosegue tra analisi cliniche periodiche e la riscoperta di abitudini salutari, dalla boxe praticata in una palestra palermitana alle passeggiate sul litorale di Mondello al sorgere del sole. Ogni mattina, dice, apre la finestra e respira l’odore di salsedine come fosse un promemoria quotidiano della libertà riconquistata. Il rapporto con i genitori si è rinsaldato: ora li avverte quando rientra tardi, con il rigore di chi ha compreso il prezzo di un silenzio prolungato. Il padre lo definisce pubblicamente “il ragazzo più bello del mondo”, sottolineando come le fragilità affrontate insieme abbiano cementato un legame spesso dato per scontato.
La testimonianza di Achille Costacurta suggerisce che la caduta non è un punto d’arrivo irrevocabile ma un possibile trampolino di rinascita, se supportata dalla rete affettiva e dalle istituzioni sanitarie adeguate. La sua voce, limpida nonostante le incrinature del vissuto, diventa così il megafono di un disagio diffuso tra i giovani, troppo spesso affrontato con superficialità o stigmatizzato dalla cronaca nera. Raccontare il baratro, senza esaltarlo né demonizzarlo, significa indicare una direzione a chi ancora vi si trova immerso, affermando che la vita, persino quado viene messa a repentaglio da sette boccette di metadone, può ricominciare. Per restare sempre aggiornato scarica GRATIS la nostra App!