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Marocco, indossa una maglietta “Allah è lesbica”: carcere per la femminista Ibtissam Lachgar

Il tribunale di Rabat condanna a trenta mesi l’attivista femminista Ibtissam Lachgar per aver indossato una maglietta con la scritta blasfema, scatenando un dibattito internazionale sulla libertà di espressione nel regno alawita.

Il tribunale di primo grado di Rabat ha condannato a trenta mesi di reclusione effettiva l’attivista femminista Ibtissam «Betty» Lachgar, riconosciuta colpevole di offesa alla religione islamica per aver indossato una maglietta con la scritta «Allah è lesbica». La sentenza, pronunciata il 3 settembre scorso, ha immediatamente scatenato un acceso dibattito nazionale e internazionale sulla libertà di espressione e sui diritti civili nel regno alawita.

La cinquantenne psicologa clinica e attivista per i diritti umani si trova in stato di detenzione dal 12 agosto nella prigione di El Arjat, vicino alla capitale marocchina, dove è richiusa in isolamento e senza possibilità di usufruire dell’ora d’aria quotidiana. Il caso ha avuto origine dalla pubblicazione sui social network di una fotografia scattata durante il festival Women Create! di Londra, evento dedicato ad artiste e attiviste perseguitate, dove Lachgar appariva con una maglietta recante la controversa scritta in arabo con calligrafia coranica accompagnata dalla traduzione inglese.

A rendere ancora più provocatorio il gesto, l’attivista aveva accompagnato l’immagine con un commento di dura critica verso l’islam, definito «fascista, fallocratico e misogino», aggiungendo di essere stanca delle «assurdità religiose». La reazione delle autorità giudiziarie è stata immediata: la procura di Rabat ha aperto un’inchiesta basandosi sull’articolo 267-5 del codice penale marocchino, che prevede pene da sei mesi a due anni di carcere per «chiunque danneggi la religione musulmana», con aggravanti fino a cinque anni quando il reato viene commesso pubblicamente.

Ibtissam Lachgar non è nuova alle provocazioni pubbliche contro i tabù sociali e religiosi del suo paese. Cofondatrice del Movimento Alternativo per le Libertà Individuali (MALI), da oltre quindici anni si batte per i diritti delle donne, delle persone LGBTQ+ e della libertà di coscienza in Marocco. Nel 2009 aveva organizzato un picnic «profanatore» durante il Ramadan per contestare la criminalizzazione di chi non osserva il digiuno religioso, mentre nel 2013 aveva promosso un «kiss-in» pubblico a Rabat per protestare contro l’arresto di due adolescenti accusati di essersi baciati in strada, iniziativa che fece il giro del mondo ma le attirò una valanga di minacce.

Il percorso accademico dell’attivista, laureata in psicologia clinica, criminologia e victimologia a Parigi, dove attualmente lavora alla sua tesi di dottorato in psicoanalisi, le ha conferito una solida preparazione teorica che ha messo al servizio della sua battaglia per l’emancipazione femminile. Attraverso il movimento MALI, Lachgar ha condotto campagne per il diritto all’aborto sicuro e contro le violenze sulle donne, sfidando sistematicamente le norme e le convenzioni religiose della società marocchina.

La condanna si inserisce in un contesto sociale caratterizzato da forti disuguaglianze di genere, dove in caso di divorzio la custodia dei figli passa automaticamente al padre e una figlia eredita sempre la metà rispetto al fratello maschio. La poligamia, pur essendo regolamentata dalla legge, rimane una pratica ancora diffusa, mentre l’omosessualità è punibile con la reclusione secondo il codice penale vigente.

Durante l’udienza del 3 settembre, Lachgar si è presentata in aula indossando un velo e appariva visibilmente provata dalle condizioni di detenzione. Ha dichiarato al giudice di non aver mai avuto l’intenzione di offendere l’islam, sostenendo che la maglietta rifletteva un messaggio politico contro le ideologie sessiste e la violenza sulle donne. I suoi legali, guidati dall’avvocata Naima El Guellaf, hanno argomentato che il gesto rientrava nella libertà di espressione garantita dalla Costituzione marocchina, definendo le accuse incostituzionali.

Le condizioni sanitarie dell’attivista hanno aggiunto un elemento di drammaticità al caso: Lachgar, sopravvissuta a un tumore, soffre di una grave lesione al braccio sinistro che necessita di un intervento chirurgico urgente per evitare una possibile amputazione parziale. Nonostante le richieste della difesa per il rilascio provvisorio finalizzato alle cure mediche, il tribunale ha respinto ogni istanza, mantenendo la detenzione in isolamento.

La vicenda ha suscitato un’ondata di indignazione che ha travalicato i confini nazionali. L’Associazione Marocchina dei Diritti Umani ha definito l’arresto «arbitrario» e ha denunciato il tentativo delle autorità di soffocare ogni voce critica. In Europa, media francesi come Le Monde, Libération e Charlie Hebdo hanno dedicato ampio spazio al caso, mentre collettivi femministi e associazioni laiche hanno organizzato manifestazioni di solidarietà a Parigi e in altre città, rilanciando l’hashtag #FreeBetty sui social network.

Il caso ha anche evidenziato le contraddizioni del sistema giuridico marocchino, dove la Costituzione del 2011 garantisce formalmente la libertà di espressione e l’uguaglianza di genere, ma il codice penale mantiene disposizioni severe relative alla religione e alla moralità pubblica. L’articolo 19 della Carta costituzionale, pur affermando l’uguaglianza tra uomo e donna, subordina tale principio al «rispetto delle costanti delle leggi del Regno», tradizionalmente interpretate come indissolubilmente legate ai principi della religione islamica.

Gli avvocati di Lachgar hanno annunciato ricorso in appello e l’intenzione di presentare una richiesta per pene alternative, previste da una recente riforma legislativa. Tuttavia, il verdetto rappresenta un precedente inquietante per gli attivisti dei diritti civili in Marocco, segnalando un possibile inasprimento della repressione verso chi contesta apertamente le norme religiose e sociali consolidate.

La famiglia e i sostenitori dell’attivista hanno accolto la sentenza in lacrime davanti al tribunale, parlando di una condanna «scioccante» e di un attacco diretto alla libertà di espressione. Per molti osservatori, il caso Lachgar simboleggia il conflitto più ampio tra modernità e tradizione che attraversa la società marocchina, evidenziando come il potere religioso e quello statale convergano nel limitare gli spazi di libertà individuale, particolarmente per le donne e le persone appartenenti alla comunità LGBTQ+.

La condanna a trenta mesi di reclusione rappresenta un punto di svolta nella carriera di un’attivista che fino ad oggi non aveva mai affrontato una pena detentiva così pesante per le sue provocazioni pubbliche. Il verdetto del tribunale di Rabat consolida un approccio giudiziario sempre più severo verso le manifestazioni di dissenso religioso, configurandosi come un monito per chiunque intenda sfidare i tabù della società marocchina contemporanea.Per restare sempre aggiornato scarica GRATIS la nostra App!