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Calcio, Jankto: “Tanti calciatori gay ma hanno paura del giudizio degli altri”

L’ex calciatore ceco rivela di aver ricevuto numerosi messaggi da colleghi gay che non hanno il coraggio di dichiararsi pubblicamente, evidenziando il persistente tabù dell’omosessualità nel calcio professionistico.
Instagram @jakubjanktojr/

Jakub Jankto ha imposto una riflessione profonda al mondo del calcio quando, il 13 febbraio 2023, ha pubblicato quel video diventato virale: «Ciao, sono Jakub Jankto. Sono gay e non voglio più nascondermi». Due anni dopo, l’ex centrocampista ceco che ha militato in Serie A con Udinese, Sampdoria e Cagliari, ha chiuso definitivamente con il calcio giocato a soli 29 anni, diventando una figura unica nel panorama sportivo mondiale come primo calciatore di una nazionale maggiore maschile ad aver fatto coming out mentre era ancora in attività.

L’addio al calcio di Jankto è arrivato nell’agosto 2025 attraverso un messaggio sui social che ha rivelato le motivazioni profonde di questa scelta: da un lato una lesione completa ai legamenti della caviglia sinistra che lo tormentava da tempo, dall’altro il desiderio di dedicarsi completamente alla crescita del figlio David, di sei anni, nato dalla relazione con la modella Marketa Ottomanska. “Il punto chiave è mio figlio, voglio stare più tempo con lui”, aveva dichiarato nell’annuncio che ha chiuso una carriera caratterizzata non solo dalle prestazioni tecniche ma soprattutto dal coraggio dimostrato nel rompere uno dei tabù più radicati del calcio moderno.

Oggi, dalla sua Praga dove allena oltre ottanta ragazzini nel Dukla e nell’accademia del Cafc collegata allo Slavia, Jankto ha rilasciato una lunga intervista al Corriere della Sera che offre uno spaccato inedito sulla realtà dell’omosessualità nel calcio professionistico. Le sue parole rivelano un paradosso inquietante: “Mi sono arrivati tantissimi messaggi che dicevano “vorrei fare come te, ma non riesco“, confessando di aver ricevuto questi segnali non solo da tifosi generici ma anche da calciatori professionisti che continuano a vivere la propria identità sessuale nel silenzio e nella paura del giudizio altrui.

La testimonianza dell’ex giocatore del Cagliari assume particolare rilevanza se contestualizzata con i dati emersi dalla ricerca Outsport, progetto europeo cofinanziato dal programma Erasmus+ della Commissione Europea, che evidenzia come l’82% delle persone intervistate nei Paesi dell’Unione Europea sia stato testimone di linguaggio omotransfobico in contesti sportivi, mentre un terzo non fa alcun tipo di coming out e il 16% dichiara di aver subito violenze verbali o fisiche. Lo studio rileva inoltre che il calcio risulta essere lo sport maggiormente abbandonato a causa dell’omotransfobia, tanto in Italia quanto nel resto d’Europa.

Contro la narrazione dominante che dipinge il calcio come intrinsecamente omofobo, Jankto offre una prospettiva diversa basata sulla sua esperienza diretta: “Per la mia esperienza dico di no. Se c’è un problema è fuori, non dentro al calcio“. Questa affermazione, apparentemente controcorrente rispetto alle statistiche e alle cronache, trova spiegazione nelle parole successive del centrocampista: il vero ostacolo non sarebbe l’ambiente calcistico in sé, ma la paura del giudizio esterno, quello dei tifosi, dei media e della società in generale che continua a perpetuare stereotipi legati alla mascolinità egemone nello sport.

L’esperienza italiana di Jankto conferma questa lettura: «In Italia sono stato trattato meglio di quello che pensavo», ha dichiarato, pur riconoscendo che il primo mese dopo il coming out sia stato difficile per l’incertezza sulle reazioni. La svolta è arrivata quando ha constatato che “tutti mi hanno dato una mano, anche perché il mio comportamento era positivo“. Una lezione che sottolinea l’importanza dell’atteggiamento personale nel processo di accettazione sociale, ma che non può certamente essere generalizzata o diventare un requisito per il diritto alla dignità.

I tre anni successivi al coming out, secondo le parole di Jankto, sono stati «i migliori» della sua carriera, non solo dal punto di vista umano ma anche sportivo: “Non dovevo nascondere niente, potevo andare con il mio partner ovunque“. Questa testimonianza evidenzia il peso psicologico della dissimulazione, un fardello che molti atleti continuano a portare in silenzio, privandosi della possibilità di esprimere pienamente la propria personalità e, probabilmente, anche le proprie potenzialità sportive.

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La decisione di Jankto di fare coming out non è stata programmata ma è scaturita da un momento di particolare pressione: «Erano cominciate a girare le voci, che forse ero gay, e in quel momento mi sono sentito troppo male: ho deciso che dovevo dirlo». Questo particolare rivela come spesso la rivelazione pubblica dell’orientamento sessuale nel mondo dello sport non sia frutto di una scelta serena e ponderata, ma piuttosto una reazione difensiva alle speculazioni e ai pettegolezzi che rischiano di trasformarsi in armi di ricatto o di delegittimazione.

La questione paternità rappresenta un aspetto particolare della vicenda Jankto, che ha avuto un figlio dalla modella Marketa Ottomanska prima di dichiarare pubblicamente la propria omosessualità. Il rapporto con l’ex compagna è descritto come “normale” ma limitato alle questioni riguardanti il bambino, mentre l’ex calciatore esprime preoccupazione per i possibili problemi che il figlio potrebbe incontrare a causa del coming out del padre: «Può succedere, gli idioti ci sono sempre», riconosce con realismo, aggiungendo però che ha deciso di ritirarsi anche “per essergli a fianco nella sua crescita”.

La strategia comunicativa adottata da Jankto sui social media rivela un approccio pragmatico alla gestione dell’odio online: «Ho sempre tolto i commenti dai social e non ho mai letto nulla». Questa scelta di autoprotezione, pur comprensibile, solleva interrogativi sulla sostenibilità di un modello che costringe le vittime potenziali di discriminazione a limitare la propria presenza pubblica per evitare attacchi.

La transizione di Jankto dal calcio giocato all’allenamento delle giovanili rappresenta una nuova fase della sua esistenza che mantiene comunque un legame con il mondo del pallone. Oggi allena il figlio nel Dukla e si occupa dei suoi investimenti immobiliari, vivendo apertamente la relazione con il proprio partner anche negli eventi sociali con gli altri allenatori: “Loro portano le mogli e le fidanzate, io porto il mio compagno. Sono felice e sto bene con me stesso”.

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Il paradosso della visibilità emerge chiaramente dalle dichiarazioni di Jankto: nonostante il suo esempio abbia dimostrato che “se fai coming out, non succede nulla”, nessun altro calciatore di alto livello ha seguito le sue orme. La spiegazione fornita dall’ex centrocampista è lapidaria: “Evidentemente hanno paura del giudizio degli altri, ma ognuno fa le sue scelte”. Questa considerazione, pur rispettosa delle decisioni individuali, non può nascondere il fallimento sostanziale dell’obiettivo che lo stesso Jankto si era prefissato: “Spero che il mio gesto serva a dare coraggio anche ad altri calciatori”.

La solitudine di Jankto nel panorama calcistico mondiale è emblematica di una resistenza culturale che va ben oltre la semplice omofobia esplicita. Come evidenziato da uno studio di YouGov condotto nelle cinque maggiori nazioni calcistiche europee, il 40% dei tifosi tedeschi, il 45% di quelli francesi e percentuali simili in Italia, Spagna e Regno Unito considerano l’omofobia molto o moderatamente diffusa nel calcio professionistico dei rispettivi Paesi. Questi dati confermano l’esistenza di un problema strutturale che non può essere risolto unicamente attraverso gesti individuali di coraggio.

L’analisi del linguaggio utilizzato negli stadi e sui social media conferma la persistenza di atteggiamenti discriminatori: secondo una ricerca condotta su oltre 1500 post offensivi, gli attacchi omofobi rappresentano il 40% dei messaggi rivolti ai calciatori maschi. Particolarmente significativo è il fatto che questi attacchi non vengano necessariamente rivolti a giocatori apertamente omosessuali, ma a chiunque mostri comportamenti o atteggiamenti che non si conformino al modello di mascolinità egemonica tradizionalmente associato al calcio.

La questione istituzionale rappresenta un aspetto cruciale che Jankto affronta con una certa rassegnazione quando interrogato sul possibile coinvolgimento di UEFA o FIFA nella lotta all’omofobia: “No, ma se potrò fare qualcosa d’altro oltre all’esempio personale, sono a disposizione”. Questa risposta rivela l’assenza di aspettative verso le istituzioni calcistiche internazionali, ma anche la disponibilità personale a contribuire attivamente al cambiamento culturale.

Le recenti dichiarazioni del calciatore Federico Bernardeschi, che ha affermato “Mi hanno dato tante volte del gay, ma se lo fossi non avrei problemi a dirlo e la gente deve farsi i cavoli suoi”, hanno ricevuto l’apprezzamento di Jankto: “Mi è piaciuto quello che ha detto. Ma se fosse così facile dirlo, dopo di me qualcun altro lo avrebbe fatto”. Questa osservazione evidenzia la distanza tra le dichiarazioni di principio e la realtà concreta di chi deve affrontare le conseguenze personali e professionali di una scelta così esposta.

La testimonianza di Jankto assume valore particolare nel contesto italiano, dove il Rapporto 2025 sull’omotransfobia ha registrato 105 episodi che hanno coinvolto 154 vittime, con una concentrazione particolare nelle regioni che ruotano attorno alle grandi città. Il calcio, in questo scenario, non rappresenta un’eccezione ma piuttosto un riflesso amplificato delle tensioni sociali esistenti, dove la combinazione tra mascolinità tossica, pressione mediatica e esposizione pubblica crea condizioni particolarmente sfavorevoli per l’espressione autentica dell’identità sessuale.

L’eredità di Jakub Jankto nel calcio mondiale va oltre le sue prestazioni sportive e il coraggio dimostrato nel coming out. La sua esperienza ha documentato la possibilità concreta di vivere apertamente la propria sessualità nel calcio professionistico senza subire conseguenze devastanti, ma ha anche rivelato l’isolamento di chi compie questa scelta e la persistente resistenza di un ambiente che continua a imporre il silenzio come prezzo per l’accettazione. I messaggi ricevuti da altri calciatori che “vorrebbero fare come lui ma non riescono” rappresentano la testimonianza più eloquente di un cambiamento culturale ancora incompiuto, dove il coraggio individuale non è sufficiente a scardinare sistemi di oppressione che richiedono interventi strutturali e istituzionali per essere definitivamente superati. Per restare sempre aggiornato scarica GRATIS la nostra App!