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Ornella Vanoni, l’ultima telefonata: “Ho un dolore, come un coltello che ti trapassa la schiena”

Ornella Vanoni ha descritto a Maurizio Porro il suo dolore vertebrale come «un coltello che ti trapassa la schiena» pochi giorni prima di morire, pianificando un ricovero in una clinica di Pavia che non avrebbe mai raggiunto.

L’icona della musica italiana, morta a novant’uno anni nella sua casa di Milano nella notte tra venerdì 21 e sabato 22 novembre, ha lasciato testimonianza delle sue ultime ore di vita attraverso conversazioni rivelatrici che disegnano il ritratto di una donna consapevole, lucida, che affrontava il declino fisico con quella stessa dignitosa ironia che l’aveva sempre caratterizzata. L’ultima telefonata a Maurizio Porro, firma autorevole del ‘Corriere della Sera’, costituisce una finestra straordinaria su questi ultimi giorni, durante i quali Ornella Vanoni cercava ancora di mantenere il controllo di un corpo che le sfuggiva.

«Non sto bene, un dolore a una vertebra, non so, mi sento strana, ma andrò in una clinica di Pavia dove sono bravissimi, li conosco, mi metteranno a posto»: con queste parole Vanoni descriveva a Porro lo stato di malessere che l’aveva colpita improvvisamente negli ultimi giorni della sua vita. La precisione della descrizione, la fredda lucidità nel nominare la sede anatomica del disturbo, rivelano una donna che osservava il proprio disagio senza cedere al panico, come se quella vertebra dolente fosse una questione amministrativa risolvibile con una buona clinica. Ma quando la conversazione procedeva, il tono cambiava, il dolore assumeva contorni più drammatici: «Ora devo stare ferma, ho un dolore, sai come un coltello che ti trapassa la schiena».

Quell’immagine del coltello che trapassa la schiena è particolarmente significativa se considerata nel contesto della vita di Vanoni, una donna che aveva scelto la metafora come principale strumento espressivo. Non era il semplice racconto di un dolore, ma una dichiarazione poetica di sofferenza fisica, quella descrizione che soltanto chi ha vissuto una vita nell’arte sa utilizzare anche quando parla del proprio corpo che si disgrega. In quella stessa telefonata, Vanoni aveva anche precisato le sue intenzioni: «Domenica non vado da Fazio, ci sono a settimane alterne, ci andrò domenica prossima». Si riferiva all’apparizione televisiva a ‘Che tempo che fa’, programma nel quale era stata ospite l’ultima domenica di novembre, il 2 novembre esattamente, solennemente dedicato ai santi. Quella domenica successiva di cui parlava non sarebbe mai arrivata.

Avere novant’uno anni e affrontare dolori acuti alla colonna vertebrale non era una novità nella fisiologia di Vanoni, ma in quei giorni di novembre qualcosa era cambiato radicalmente nei ritmi del suo corpo. L’estate precedente, appena qualche mese prima, la grande interprete aveva attraversato un periodo di ricoveri che l’avevano vista sotto osservazione medica dapprima all’ospedale Monzino di Milano, poi al centro Don Gnocchi, dove era stata curata per uno scompenso cardiaco che aveva provocato l’accumulo di liquido nei polmoni, una condizione seria che aveva richiesto interventi terapeutici significativi. Quella battaglia, tuttavia, sembrava vinta: quando si era presentata nello studio di Fabio Fazio, soltanto poche settimane prima della sua morte, aveva raccontato che i medici l’avevano curata e che stava meglio, come se volesse tracciare una linea di demarcazione tra la malattia del passato e una ritrovata stabilità.

Ma il corpo racconta storie più complesse di quelle che la volontà riesce a imporre. Negli ultimi giorni di novembre, Ornella Vanoni era in grado di riconoscere che qualcosa non stava funzionando come avrebbe dovuto, che i segnali che arrivavano dalla sua fisicità erano diversi dagli usuali, e che quindi necessitava di una soluzione medica. L’accesso alla clinica di Pavia, dove secondo la sua interpretazione ‘sono bravissimi’, rappresentava il tentativo estremo di risolvere quanto stava accadendo nel suo corpo ormai sfinito. La fiducia riposta in quella struttura medica suggerisce la conoscenza del luogo, probabilmente attraverso precedenti esperienze positive, e al contempo la speranza che anche stavolta i professionisti sarebbero riusciti a ‘metterla a posto’, come dire a restaurare la funzionalità di un corpo deteriorato dal passare degli anni e dalle malattie.

Quella clinica di Pavia Vanoni non avrebbe mai raggiunto. Nella notte tra venerdì 21 e sabato 22 novembre, la grande cantante è stata colpita da un arresto cardiocircolatorio nella sua abitazione milanese. Non è stato il dolore vertebrale, nonostante la sua intensità lancinante, a porle fine alla vita, ma l’evento cardiaco, quello stesso cuore che per settimane in estate era stato sotto stretta osservazione ospedaliera per lo scompenso e l’accumulo di liquidi. Un cuore che, malgrado le cure, malgrado la ripresa di cui Vanoni aveva parlato, ha cessato di funzionare.

Questa sequenza di eventi, dal dolore improvviso della vertebra all’arresto cardiaco notturno, racconta la fragilità estrema dell’essere umano anche quando dotato della straordinaria forza che Vanoni ha sempre dimostrato di possedere. Le sue ultime parole telefoniche rimangono un testamento di dignità: non lamentele prive di contenuto, non drammatizzazioni inutili, ma la descrizione precisa e poetica di un disagio fisico affrontato con quella stessa consapevolezza che aveva caratterizzato tutta la sua esistenza e la sua carriera artistica. La donna che aveva attraversato quasi settant’anni di palcoscenico, che aveva cantato per generazioni di italiani con una voce inconfondibile, che aveva sopportato depressioni e difficoltà relazionali, che aveva scelto di raccontare verità scomode sulla propria vita, è stata colta da un malore che nessuna clinica avrebbe potuto prevenire.

L’immagine che rimane di queste ultime ore è quella di una donna che continuava a lottare, che ancora pianificava il futuro pur consapevole che il proprio corpo si stava esaurendo, che ancora tentava di mantenere il controllo di situazioni che ormai le sfuggivano. La medicina contemporanea, pur con tutti i suoi progressi, non ha potuto trattenere quella voce straordinaria che aveva accompagnato la storia culturale italiana dal Dopoguerra in poi. Ma in quella ultima telefonata rimane una lezione di come affrontare il declino: con lucidità, con la precisione del linguaggio, con l’ironia di chi sa che il corpo è soltanto un involucro temporaneo di qualcosa di ben più profondo.

La domenica successiva a cui Vanoni alludeva nella sua ultima conversazione non si è mai verificata. L’Italia ha perso una delle sue più luminose interpreti musicali, una donna che aveva scelto di vivere in modo radicalmente autentico, affrontando pubblicamente sia i propri successi che le proprie fragilità. E quello che rimane, al di là delle circostanze della sua morte, è una voce che continuerà a risuonare nei decenni, attraversando il tempo con la stessa capacità di penetrazione che aveva caratterizzato ogni sua esibizione. Per restare sempre aggiornato scarica GRATIS la nostra App!