“Esprimo delusione per la scelta del Governo di modificare in modo unilaterale le finalità e le modalità di attribuzione dell’8×1000 di pertinenza dello Stato”. Con queste parole nette il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Conferenza Episcopale Italiana, ha aperto un nuovo fronte di tensione tra Chiesa e Governo durante il convegno “1985-2025 – Quarant’anni di sostentamento del clero” tenutosi ieri a Bologna. Una presa di posizione forte contro il decreto firmato da Palazzo Chigi che ridisegna la destinazione dei fondi dell’8 per mille non destinati a confessioni religiose, accusando l’esecutivo di aver violato lo spirito dell’accordo tra Stato e Chiesa.
Lo scontro si concentra sul DPR 213/2024, pubblicato in Gazzetta Ufficiale lo scorso 7 gennaio ed entrato in vigore il 22 gennaio 2025, che modifica radicalmente il sistema di attribuzione della quota dell’8 per mille destinata alla gestione statale. Un intervento normativo che secondo la CEI “va contro la realtà pattizia dell’accordo stesso, sfalsa oggettivamente la logica e il funzionamento del meccanismo, creando una disparità che danneggia sia la Chiesa cattolica che le altre confessioni religiose firmatarie delle intese con lo Stato”.
L’8×1000 rappresenta una parte fondamentale del sistema di finanziamento della Chiesa Cattolica e delle altre confessioni religiose riconosciute dallo Stato italiano. Introdotto nel 1984 con l’Accordo di Villa Madama che ha modificato il Concordato, questo meccanismo permette ai contribuenti di destinare l’8 per mille della propria IRPEF a una confessione religiosa o allo Stato. Un sistema che ha sostituito il precedente finanziamento diretto attraverso la “Congrua”, con cui lo Stato pagava direttamente gli stipendi ai sacerdoti.
Attualmente, i contribuenti che compilano la dichiarazione dei redditi possono scegliere tra lo Stato e ben tredici confessioni religiose, tra cui la Chiesa Cattolica, la Chiesa Valdese, la Chiesa Evangelica Luterana e l’Unione delle Comunità Ebraiche. Va sottolineato che, contrariamente a quanto molti pensano, anche le quote di chi non esprime alcuna scelta vengono comunque distribuite, in proporzione alle preferenze di chi ha fatto una scelta esplicita.
La novità introdotta dal Governo Meloni riguarda proprio la gestione delle risorse che i cittadini destinano allo Stato. Fino allo scorso anno, i fondi venivano ripartiti in cinque quote uguali tra gli interventi per contrastare la fame nel mondo, le calamità naturali, l’assistenza ai rifugiati, la conservazione dei beni culturali e l’edilizia scolastica. Con il nuovo regolamento, invece, si aggiungono due nuove finalità: l’assistenza ai minori stranieri non accompagnati e il recupero dalle tossicodipendenze.
La modifica più contestata riguarda però il criterio di ripartizione. I fondi non saranno più divisi in parti uguali, ma verranno distribuiti in proporzione alle scelte espresse dai contribuenti tra le varie tipologie di intervento. Inoltre, per le risorse derivanti dalle scelte non espresse (che rappresentano oltre il 41% del totale), il Consiglio dei Ministri potrà deliberare entro il 30 novembre di ogni anno la destinazione a specifiche finalità.
Quest’ultima disposizione ha rappresentato il vero punto di rottura con la Chiesa. Lo scorso dicembre, infatti, su proposta della presidente Giorgia Meloni, il Consiglio dei Ministri aveva già deciso di destinare la quota non espressa del 2023 (circa 63 milioni di euro) al recupero dalle tossicodipendenze, finanziando 33 progetti per oltre 10 milioni di euro, con la restante somma accantonata per ulteriori interventi in questo settore.
Secondo gli esperti di diritto ecclesiastico, la critica della CEI non riguarda tanto la destinazione dei fondi a cause meritevoli come la lotta alle dipendenze, quanto il metodo con cui queste modifiche sono state introdotte: unilateralmente, senza una consultazione con le confessioni religiose, come previsto dagli accordi pattizi. “Non ci interessano i soldi, ci interessano i poveri”, ha precisato il cardinale Zuppi, sottolineando che il problema non è economico ma di principio.
Per comprendere meglio la posizione della Chiesa, va ricordato che la legge 222 del 1985 prevede che i fondi dell’8×1000 destinati alla Chiesa Cattolica vengano utilizzati per tre finalità: interventi caritativi in Italia e nei Paesi in via di sviluppo, esigenze di culto e pastorale, e sostentamento dei sacerdoti. La Chiesa, inoltre, rende conto annualmente allo Stato dell’utilizzo di questi fondi, seguendo uno schema preciso.
Nonostante la dura presa di posizione, il presidente della CEI ha anche espresso fiducia nella possibilità di trovare una soluzione: “Restiamo fiduciosi nella composizione del contenzioso, nel rispetto delle finalità proprie per le quali il meccanismo dell’8×1000 è stato istituito e che non possono essere modificate, se non di comune accordo”. Parole che lasciano intendere la disponibilità a un dialogo costruttivo, ma anche la ferma difesa del principio pattizio alla base dei rapporti tra Stato e Chiesa.
Il Governo, dal canto suo, difende le modifiche introdotte, sostenendo che rispondono a esigenze sociali urgenti, come la lotta alle dipendenze patologiche che, come si legge nella relazione tecnica del decreto, “hanno effetti devastanti non solo per i singoli e le famiglie, ma anche per la collettività”, con ripercussioni “sull’ordine pubblico, sulla spesa sanitaria e sui servizi sociali”.
La polemica sull’8×1000 rappresenta un banco di prova significativo per i rapporti tra l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni e la Chiesa Cattolica, in un momento in cui il Paese si trova ad affrontare numerose sfide sociali. Se da un lato è legittima la preoccupazione della Chiesa per il rispetto degli accordi pattizi, dall’altro il Governo mostra di voler rispondere a emergenze concrete come la tossicodipendenza, utilizzando tutti gli strumenti a disposizione.
Restano ora da vedere gli sviluppi di questa controversia, con la speranza che prevalga lo spirito di collaborazione nell’interesse dei più deboli, come sottolineato dallo stesso cardinal Zuppi: “Non vogliamo privilegi, i diritti sono diritti”. Una visione che potrebbe rappresentare la base per una composizione del contenzioso che rispetti sia l’autonomia dello Stato sia i principi concordatari.