Il pastificio molisano La Molisana è pronto a delocalizzare la produzione negli Stati Uniti per aggirare il devastante dazio del 107 per cento che l’amministrazione Trump intende imporre sulla pasta italiana a partire dal 2026. L’annuncio dell’amministratore delegato Giuseppe Ferro rappresenta una svolta strategica epocale per l’azienda di Campobasso, costretta a valutare l’apertura di uno stabilimento oltreoceano per mantenere la competitività sul secondo mercato mondiale per l’export della pasta italiana.
La decisione nasce dalle drammatiche conseguenze dell’indagine anti-dumping condotta dal Dipartimento del Commercio statunitense, che ha accusato La Molisana e Pastificio Garofalo di vendere la pasta a prezzi inferiori al costo di produzione, stabilendo un margine di dumping preliminare del 91,74 per cento che, sommato al dazio esistente del 15 per cento, porta l’imposizione complessiva a un record del 107 per cento. Ferro ha dichiarato durante l’incontro con i giornalisti che “con dazi al 107 per cento per noi non è possibile lavorare”, evidenziando come l’export negli Stati Uniti rappresenti circa il 10-11 per cento del fatturato totale dell’azienda che opera in 120 Paesi.
L’indagine americana ha assunto caratteristiche controverse poiché il Dipartimento del Commercio ha esteso automaticamente il margine di dumping calcolato per le due aziende esaminate a tutti gli altri esportatori italiani citati nel procedimento, inclusi colossi del settore come Barilla, Rummo, Pastificio Liguori, Pastificio Sgambaro, Agritalia, Aldino, Antiche Tradizioni di Gragnano, Gruppo Milo, Pastificio Artigiano Cavaliere Giuseppe Cocco, Pastificio Chiavenna, Pastificio della Forma e Pastificio Tamma. La metodologia seguita dalle autorità statunitensi ha suscitato aspre critiche poiché molte di queste aziende non sono state sottoposte ad alcuna verifica diretta.
La Molisana ha già affrontato tre procedure di dumping negli anni precedenti, superando le prime due con risultati favorevoli – zero per la prima e 1,6 per cento per la seconda – ma ora si trova davanti a una situazione radicalmente diversa. Ferro ha spiegato che l’azienda è stata accusata di non essere stata collaborativa, un’affermazione che ha definito “assolutamente non vera”, mentre una quarta procedura è già in arrivo. La strategia di delocalizzazione rappresenterebbe una soluzione drastica per azzerare l’impatto dei dazi, considerando che le aziende che producono direttamente sul territorio americano non sono soggette a queste imposizioni.
Il mercato statunitense della pasta italiana vale attualmente 671 milioni di euro annui, rappresentando il secondo mercato di destinazione dopo la Germania per un settore che produce oltre 4 milioni di tonnellate annue, di cui il 60 per cento destinato all’export. La minaccia dei dazi rischia di azzerare completamente questo flusso commerciale, costringendo i consumatori americani a pagare il doppio per un pacco di pasta italiana – da 3 a 6 dollari – e aprendo la strada alle imitazioni dell’italian sounding, prodotti che evocano l’italianità senza avere alcun legame con la tradizione culinaria italiana.
Le reazioni del mondo politico e delle associazioni di categoria sono state immediate e convergenti nel denunciare la natura strumentale e sproporzionata della decisione americana. Luigi Scordamaglia, amministratore delegato di Filiera Italia, ha definito “inaccettabile” il provvedimento, sottolineando che “è stato esteso a tutta una serie di altre aziende in maniera assolutamente ingiustificata” e rappresenta “una decisione politica e non tecnica”. Il presidente di Coldiretti Ettore Prandini ha parlato di “un colpo mortale per il Made in Italy”, evidenziando come le accuse di dumping siano “inaccettabili e strumentali al piano di Trump di spostare le produzioni negli Stati Uniti”.
La diplomazia italiana si è attivata immediatamente attraverso l’Ambasciata a Washington e i ministeri degli Esteri e dell’Agricoltura per tentare di convincere il Dipartimento del Commercio americano a rivedere la decisione prima della sua entrata in vigore. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha annunciato che “alla Farnesina la task force dazi sta già lavorando per coordinare il negoziato con le autorità americane”, mentre il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, attualmente in visita negli Stati Uniti, ha dichiarato di seguire “con attenzione i dossier legati alla presunta azione anti-dumping che farebbe scattare un meccanismo iper-protezionista verso i nostri produttori di pasta del quale non vediamo né la necessità né alcuna giustificazione”.
La questione assume proporzioni ancora più preoccupanti considerando l’evoluzione del fenomeno dell’italian sounding negli Stati Uniti, dove secondo i dati di The European House Ambrosetti le imitazioni di prodotti italiani potrebbero crescere del 15 per cento, passando da 7,5 a 8,6 miliardi di euro a causa dell’effetto distorsivo dei dazi. Attualmente tre prodotti su quattro spacciati per italiani negli Stati Uniti sono in realtà delle imitazioni che causano un danno economico alle aziende italiane quantificabile in oltre 4 miliardi di euro annui. Nel settore della pasta, il 97 per cento dei sughi “italian sounding” sono pure imitazioni, mentre il 94 per cento delle conserve sott’olio e sotto aceto pseudo-italiane risultano false.
La procedura anti-dumping americana non rappresenta una novità assoluta, poiché trae origine da un ordine emesso nel 1996 sulla pasta italiana accusata di essere venduta negli Stati Uniti a prezzi dannosi per la concorrenza locale. Tuttavia, le indagini precedenti si erano sempre concluse con incrementi tariffari minimi, dell’ordine dell’1-2 per cento, rendendo la cifra del 91,74 per cento un precedente senza eguali che ha colto di sorpresa l’intero settore. Il meccanismo delle revisioni periodiche viene attivato su richiesta di aziende concorrenti statunitensi, alcune delle quali risultano paradossalmente controllate da gruppi italiani che hanno già delocalizzato la produzione negli Stati Uniti.
L’eventuale delocalizzazione de La Molisana rappresenterebbe un caso emblematico della strategia protezionista dell’amministrazione Trump, finalizzata a incentivare il trasferimento delle produzioni sul territorio americano attraverso l’imposizione di dazi punitivi. Questa dinamica rischia di innescare un effetto domino che potrebbe spingere altre aziende italiane a valutare soluzioni simili per preservare la propria presenza sul mercato americano, con conseguenze potenzialmente devastanti per l’occupazione e l’indotto del settore in Italia. La pasta, simbolo della dieta mediterranea riconosciuta dall’UNESCO come patrimonio immateriale dell’umanità, si trova così al centro di una guerra commerciale che minaccia di stravolgere gli equilibri consolidati dell’export italiano negli Stati Uniti. Per restare sempre aggiornato scarica GRATIS la nostra App!